mercoledì 25 luglio 2018

RICORDO DI GASPARE DI LIETO (E UN PO' DI AMARCORD)

Quando vivevo ad Amalfi, passando per la piazza del Duomo, non riuscivo a immaginare lo spazio retrostante la fontana del Popolo, dominata dalla statua di marmo dell'apostolo Andrea, senza che si intravedesse, all'ingresso del suo stracolmo negozio di ceramica, la figura pacioccona, simpatica, sorridente e accogliente di Gaspare Di Lieto. Mi fermavo a parlare con lui ed era sempre un piacere ascoltarlo.
Il mio rapporto con i Di Lieto risale a quando, ragazzo, frequentavo l’Azione cattolica. Il fratello Teodoro ne era presidente. Divideva il tempo tra negozio e Seminario dove era ospitato il Centro diocesano A.C. Lì tenevamo le nostre riunioni. Ma conoscevo bene anche il padre, don Matteo, che da stagnaro si era trasformato in maestro eccelso nel modellare la creta. Realizzò il presepe sommerso per la Grotta dello smeraldo, le tavole della Via Crucis per l’ex cattedrale di Scala, tante altre piccole opere che fanno gola ai collezionisti. Ne ho comprato su internet quando ho potuto. Riuscì a mettere la ceramica di Atrani, dove la si lavorava, in competizione con quella di Vietri sul Mare. L’industria grafica e cartaria De Luca, alcuni anni fa, le ha dedicato uno splendido calendario. In quella piccola azienda, erano impegnati, con compiti diversi, i figli. In particolare Mario, che aveva seguito studi d’arte ed era un pittore veramente bravo.
Una volta i dipendenti della piccola fabbrica, situata in un vicoletto accessibile sia dalla strada statale che dalla piazzetta, indissero uno sciopero. Per una rivendicazione economica. Me ne parlarono. Senza nemmeno pensarci mi schierai al loro fianco con un articolo sul Quotidiano (giornale, manco a farlo apposta, legato alla Chiesa e ai vescovi). Ci andai pesante. Ero giovanissimo (16-17 anni), di esperienza ne avevo poca. Gaspare si prese collera, indisse una conferenza stampa con la presenza dei sindacati. La cosa si chiarì, rimanemmo amici.
Nel periodo in cui abitavo nel palazzo Amodio, sulla Sciulia, avevamo come dirimpettaia la sorella di Gaspare, la signora Rosa. Le nostre case erano divise dallo stretto corridoio chiamato via Arsina: una distanza di un metro, un metro e mezzo. Ricordo lunghe chiacchierate tra lei e mia madre attraverso le finestre. Ogni tanto si passavano, allungando la mano, qualcosa: una cipolla, una testa d’aglio, un mazzetto di prezzemolo, una foglia di basilico, secondo le necessità di ciascuna.
Ero, e sono, amico di Gennaro, il figlio più piccolo di Matteo Di Lieto. Un’amicizia che risale a quando avevamo i calzoni corti, che solo la lontananza poi ha dilatato.
Gaspare, morto alla vigilia dei cento anni, si prendeva cura del negozio. Lo ha fatto per lunghissimo tempo, da diventare figura storica di piazza Duomo e dintorni: come lo erano – mi affido alla memoria, chiedo scusa per le dimenticanze (chi può, mi dia una mano) - Emiddio ‘a pumpinara che, lì vicino, vendeva il pesce; accanto alla accattivante espoosizione di frutta e verdure di Giuseppe Buonocore, detto Peppe 'a pizzeria, che in seguito si spostò allo Spirito Santo; lo storico salumiere Pittiasso (e poi il nipote Alfonso Della Monica); Giovanni Stinga, ‘o Surrentino (tessuti); la signora Francese Colavolpe, nell'antica pasticceria ricca di specchi e mobili raffinati, seduta alla cassa col micio in grembo; il gioielliere Andrea Fusco, la figlia e il figlio Saverio; l’indimenticabile Mofone, Alfonso Mostacciuolo, col suo bazar, dirimpetto al Banco di Napoli; il fotografo Tommaso Piumelli; ‘O Pulveristo, Antonio Acampora, cavaliere e coltivatore diretto (nonché consigliere comunale di rispetto) che gestiva un’osteria all’inizio del supportico dei Ferrari; il salumiere Andrea Torre; il giornalaio Andrea Savo, vera memoria storica della città, con le figliuole (che mi consentivano tutte le mattine di fare rassegna stampa); ‘O Poerlo, Teodoro Giunchiglia, ‘ncazzuso ma simpatico, inappuntabile fruttivendolo; Masaniello, Luigi Gambardella, re indiscusso del pesce fresco; la signora Abbagnara Pagano, che esponeva l'insegna Novità all'angolo della sciulia, e lì vicino la bancarella del pesce di Paolillo: il profumiere Mario Barra; il barbiere-chitarrista Peripere, di cui mi sfugge il nome; Nicolino De Stefano, 'o cafettiere, e le sue ineguagliabili granite di limone; l’orefice Antonio Esposito; Adriana col suo bel negozio di scarpe e l’accento senese che non aveva dimenticato, nonostante il matrimonio con un amalfitano doc, Nicola Savo. Aveva rilevato il locale dove prima c'era la merceria di Elena Serretiello, moglie di mio zio Gigino Nastri. E prima, molto prima, c'era la farmacia, pure Nastri, dove fu architettato un delitto politico nel 1909, quando ad Amalfi si contrastavano il partito delle giacchette e quello delle sciamberghe. Avrò modo di trattarne se campo ancora un po'; l'attrezzato salone di barbiere e parrucchiere di Gioacchino Serretiello, ci potevi fare pure il manicure; la merceria di Sisina 'e Mundello a lato della banca; don Antonio Buonocore, signore di stampo antico, che aveva la salumeria accanto all’ingresso del seminario. La moglie, Ida Perez, signora elegante e gentile, era una cantante dalla voce purissima. Il suo repertorio attingeva alle belle canzoni di Mimì Lagrotta, altro personaggio che non dovrebbe scomparire dalla nostra memoria collettiva; il pizzaiolo Andrea Buonocore (che la sera lanciava la chiama: E’ cavera ‘a pizza, ‘o pizzaiuolo!; Andrea Cimino, 'o direttore, e Antonio Buonsostegni, colonne della pasticceria Pansa, che una nuova generazione delĺa famiglia sta rilanciando a liveĺli altissimi (come faccio a non citare qui la fabbrica di confetti, canditi e dolciumi vari lungo la via della cartera 'ranna e villa Paradiso - 'o Chiano 'e Panza, paradiso dei limoni - al quale si accede dall'artistico cancello, a lato di quella che era la casa dei miei nonni materni? Allora, tempo di guerra e immediato dopoguerra, dava lavoro a molte famiglie che curavano a domicilio l'incarto delle caramelle); il farmacista Bonaventura Falcone, dove immancabilmente, se ti serviva un medico, trovavi ad aspettarti il dottor Ferdinando Paolillo; Enrico Bastolla e la sua elegante boutique; il tabaccaio Andrea Florio e il pasticciere Gaetano Amatruda (vero masto della pastiera), all’uscita dalla piazza.
In piazza era anche la sede dell’Azienda turismo, guidata dall'avvocato Leopoldo Fiorentino e diretta da Andrea Colavolpe, persona squisitissima, anima d’artista, innamorato pazzo della sua città. Non ho citato Nunzio Scoppetta, è ancora sulla breccia. Gli mando un caro saluto.
La mia simpatia per Gaspare era giustificata anche da un altro motivo. Aveva sposato un’affascinante, dolcissima ragazza del mio quartiere: ‘e ‘ncoppa ‘e grare longhe, lungo la via che conduce al Santuario della Madonna del Rosario. Ermelinda Imperato, figlia di don Giovanni, imprenditore che ha fatto la storia della carta ad Amalfi. Io ero piccolo quando si fidanzarono. Ogni volta che mi incontrava la signora Ermelinda mi chiamava, come facevano a casa mia, col secondo nome, Nicola.

Sigismondo era troppo lungo. Con un nome troppo lungo, sosteneva Massimo Troisi, un bambino “viene scostumato”.
© Sigismondo Nastri

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