venerdì 7 settembre 2018

APPUNTI DI CUCINA POVERA. DIAVOLO D’UN PEPERONCINO NELLE PENNE ALL’ARRABBIATA

Il pepàino, così lo chiamano a Maiori. Diavolo di un peperoncino. E’ sempre più difficile trovarne piccanti. Veramente piccanti. Quando ci provo, al mercato di Torrione, a Salerno, resto quasi sempre deluso dopo aver litigato, magari, col venditore al quale mi rivolgo abitualmente. In qualche circostanza mi ha addirittura sfidato ad assaggiarlo e, visto che lo masticavo senza problemi, ha fatto la... faccia del pastore della meraviglia nel presepe. I peperoncini piccanti, quelli col fuoco dentro per intenderci, li ho avuti regalati dalla signora Marilena del Frescale, a Tramonti, e dal mio amico Gennaro, ad Agerola. Quelli, sì! Ne ho conservato i semi e li coltivo in vaso sul terrazzo di casa.
Ci sono pietanze che, senza na ponta ‘e forte, perdono il loro sapore.

Sempre a proposito di peperoncini, mi capitò di vederne, a Parigi, in una esposizione di frutta e verdura. Fui colpito dal fatto che non erano come i nostri. Avevano la stessa forma, miniaturizzata, di quelli grossi che prepariamo arrostiti o in agrodolce. Cercai di toccarli col dito, fui subito redarguito. Decisi allora di comprarne tre. Mi furono consegnati accuratamente chiusi in un sacchetto di carta con la raccomandazione di stare attento quando lo avrei aperto, perché solo a guardarli avrebbero lasciato il segno. “All’anema d’ ‘a palla”, pensai.
Tornato a casa, appena cominciai a scartocciarli, insieme con mia moglie e i miei figli, i vapori si sparsero rapidissimamente in tutta la stanza, tanto che fummo costretti a rifugiarci in terrazza. Ci ritrovammo con gli occhi gonfi, che lacrimavano, e con un insopportabile bruciore al naso. Capimmo subito che non erano adatti all’impiego in cucina: avrebbero reso il cibo immangiabile.
Quei peperoncini, m’era stato detto, provenivano dai possedimenti francesi d’oltremare.
Bando a tutto ciò che è esotico, estraneo alle nostre conoscenze, perciò. Affidiamoci al tradizionale ediavulillo paesano, a chilometro zero.
ben collaudato
Una pietanza, nella quale non se ne può fare a meno? Le penne all’arrabbiata. Ecco la ricetta. Si mette a imbiondire un trito di aglio e cipolla nell’olio evo, aggiungendovi del lardo accuratamente allacciato sul tagliere. Si lascia rosolare per qualche minuto, poi vi si uniscono il peperoncino e i pomodorini, facendo addensare la salsa a fuoco vivace. Intanto si lessano le penne che, scolate al dente, vengono unite alla salsa in una zuppiera, mescolate bene, con l’aggiunta di una ricca grattata di pecorino (da solo, o misto a parmigiano).
Il grado di piccantezza, che rende il piatto arraggiato, dipende dalla varietà, qualità e quantità del peperoncino – esiste un’apposita scala di valutazione - ma è legato anche alla percezione sensoriale, che è sempre soggettiva. L'importante è non esagerare.
© Sigismondo Nastri

UN RICORDO DI CLEMENTE TAFURI

Rovistando tra le mie carte, un po' per rimetterle in ordine (cosa alquanto improbabile), un po' per deciderne la futura collocazione (un problema che, a 83 anni, mi assilla parecchio), ho ritrovato questo libro che ebbi regalato, nell'estate del 1952, con una sua dedica (a Sisgimondo, così mi chiamava), da Clemente Tafuri. È una monografia dell'artista - "Clemente da Salerno, poeta del colore" - scritta da Settimio Mobilio, che non era solo un grande avvocato, anche un profondo conoscitore d'arte.
Tafuri - osserva Mobilio - è nato, si è educato nel nostro secolo [il XX] ed ha seguito la sua via, cioè gli impulsi del suo temperamento, senza badare a scuole che egli non ha conosciuto. E aggiunge: "In arte pura non vi sono scuole, perché l'arte è manifestazione spontanea della persona, è attività di pensiero e di sentimento che trae dall'io le sorgenti delle sue espressioni". Credo che il giudizio sia perfettamente attinente al personaggio, che amava ripetere, compiacendosene: "Io seguo me stesso", cioè il suo impulso, i suoi stati d'animo.
Nato a Salerno il 18 agosto 1903, deceduto a Genova l'11 dicembre 1971, Clemente Tafuri può essere considerato l'ultimo rappresentante di una pittura tardottocentesca che a Napoli aveva come protagonisti Michele Cammarano, Vincenzo Irolli, Antonio Mancini. Una pittura che resisteva ai nuovi movimenti che si facevano strada in Europa e in Italia. Eppure, quando espose a Parigi nel 1951, nella galleria Bernheim-jeune al numero 83 di rue Faubourg Saint-Honoré, il critico Pierre Andrien - sulla rivista Le point de d'art - sottolineò che nei suoi dipinti non c'era nessun bluff, nessun pugno nello stomaco, ma soltanto una bellezza sfolgorante.
Io lo conobbi e lo frequentai nei primi anni cinquanta .- ero già corrispondente di giornali - quando aveva preso in fitto la pensione Belvedere a Conca dei Marini per dedicarsi - credo di ricordare - al ritratto di Salvo D'Acquisto commissionatogli dall'Arma dei Carabinieri. Aveva a disposizione due militari che gli facevano da scorta, oltre che da modello. Una sera venne alla torre dell'albergo Luna dove, sulla terrazza proiettata arditamente sul mare, si poteva ascoltare una musica dolce e appassionata. Apparve imponente, spavaldo, come un moschettiere uscito dalle pagine di Alessandro Dumas. Spavaldo anche nell'incontro con i pittori piemontesi che in quel periodo tenevano il loro raduno in Costiera, su invito dell'Ente provinciale per il turismo. E, se la memoria non mi tradisce, tra questi c'erano artisti che si chiamavano Francesco Menzio, Italo Cremona, Luigi Spazzapan.
Tafuri è un pittore ormai dimenticato da Salerno, che pure gli intitolò, sull'onda emotiva provocata dalla sua scomparsa, un bel pezzo di lungomare. Con l'eccezione del bel calendario 2018 dell'Azienda grafica e cartaria De Luca, curato da Marco Alfano, presentato il 28 dicembre dell'anno scorso a Palazzo di Città.
A quando una mostra rievocativa? Segnalo qui che, fra tre anni, ricorrerà il cinquantesimo anniversario della morte.
Sigismondo Nastri

giovedì 6 settembre 2018

UNA RIFLESSIONE SULLA CANNARIZIA

A conferma del declino preoccupante della lingua napoletana - e non solo quella scritta, peraltro complicata (a proposito, che orrore i testi di certe canzoni di oggi! da mettersi le mani nei capelli!), anche quella parlata, con la quale è cresciuta la mia generazione, ormai imbastardita da cattivo italiano e inglesismi vari - cito il fatto che da molte parti mi viene chiesto il significato della parola cannarizia che ha dato titolo al mio “ricettario in prosa”, edito da Areablu fuori commercio. Per la verità mi viene anche chiesto dove e come reperire il libro e questo mi mette in serio imbarazzo. Spero che, prima o poi, l’editore valuti l’opportunità di una ristampa da affidare ai circuiti di vendita. Gliene do piena facoltà.
Nella Canzone de lo Capo d’Anno, della quale curai per De Luca un'edizione in pregiata carta d'Amalfi di Amatruda, a proposito delle spese folli che caratterizzano il periodo natalizio, c’è una strofa che recita così: “la gente trase e esce, / e corre, e va e vene, / e spenne quanno tene pe’ la canna”.
La canna è la gola, il condotto attraverso il quale ingurgitiamo il cibo: detto anche, in modo dispregiativo, cannarone o cannaruozzo. L’azione dell’ingoiare è cannarià. Il goloso è 'o cannaruto.
A volte, se non riusciamo a ottenere una cosa che desideriamo fortemente, diciamo che ci è rimasta ‘ncanna. E se vogliamo mandare un’imprecazione a chi, magari – facciamo che si tratti di una leccornia -, la sta consumando avidamente in solitudine, diciamo: “puozze annuzzà’ ‘ncanna” (che tu possa soffocare). Non dovrebbe capitare mai. Il napoletano sa bene – perché gli è stato trasmesso dagli antenati - che “chi magna sulo s’affoca” (chi mangia da solo si strozza).
La cannarizi”, o cannarutizia, è la golosità, non intesa come ingordigia, ma come piacere di assaporare pietanze prelibate, dolci o salate che siano. E’ peccato? Forse sì, ma veniale, da non riferire nel confessionale. Chi ne è esente, si faccia avanti. Un antico proverbio ammonisce che “adda murì’ ‘e truono chi nun lle piace ‘o buono” (deve morire di tuono colui al quale non piace ciò che è buono).

© Sigismondo Nastri