martedì 3 maggio 2022

IL PAPA, LA GUERRA IN UCRAINA, PUTIN E GLI ALTRI

Il Corriere della sera riporta oggi, in due pagine (2 e 3), il resoconto di un lungo colloquio tra Papa Francesco e il direttore del quotidiano milanese, Luciano Fontana, che è anche l'autore del lungo servizio.

Riferisce Fontana: "La preoccupazione di Papa Francesco è che Putin, per il momento, non si fermerà. Tenta anche di ragionare sulle radici di questo comportamento, sulle motivazioni che lo spingono a una guerra così brutale. Forse ""l'abbaiare della Nato alla porta della Russia"" ha indotto il capo del Cremlino a reagire male e a scatenare il conflitto. ""Un'ira che non so dire se sia stata provocata - si interroga -, ma facilitata forse sì"".

Una domanda mi viene spontanea. Quelli che hanno massacrato Alessandro Orsini, per le sue idee fuori dal coro ("i' songo n'ata cosa, so' n'essere pensante" si autodefiniva l'indimenticabile Peppe 'o stonato a Maiori), che ne pensano?

sabato 1 gennaio 2022

PENSIERI NOTTURNI ALLA RINFUSA DEL PRIMO GIORNO DELL’ANNO, NEL SEGNO DELLA SPERANZA

Il pensiero del primo giorno dell’anno è riservato alla speranza, che sta, come in un sandwich, stretta tra due sentimenti contrastanti: l’ottimismo e il pessimismo.

L'allegria beneaugurante, manifestata il 1° gennaio dell’anno che abbiamo appena archiviato, è stata vanificata dagli eventi politici, economici, sociali che si sono succeduti fino a ieri. Complice, l'epidemia di covid. E persino da quelli atmosferici, che hanno interessato, con conseguenze gravi, anche la nostra Costiera. L'Italia corre il rischio di sprofondare in una crisi istituzionale se i partiti non trovano un'intesa per eleggere di qui a qualche mese un presidente della Repubblica super partes, capace di rappresentare l'unità nazionale senza condizionamenti.

Mentre si festeggia l'arrivo del nuovo anno, e dopo ricche libagioni, si dà fuoco alla santabarbara dei fuochi d'artificio (mi chiedo a che sono servite le ordinanze di divieto dei sindaci, completamente disattese), penso ai poveri, agli emarginati, a quei disgraziati che cercano scampo da carestia, guerre, violenza, e tentano di approdare sulla nostra riva del Mediterraneo. Penso ai giovani che non trovano sbocchi occupazionali, ai lavoratori "espulsi" dai luoghi di produzione perché molte aziende, che pure hanno beneficiato di incentivi da parte dello stato italiano, chiudono o si trasferiscono altrove. Penso alla scuola, ridotta a un'area di parcheggio, che non alimenta le menti e non forma le coscienze. Penso alla riforma in atto degli esami, da quelli di scuola media a quelli di maturità, e mi viene da rimpiangere Giovanni Gentile.

Penso agli aumenti sulle bollette di luce e gas, che decorrono da oggi e faranno da traino alla lievitazione del costo complessivo della vita: dai generi di prima necessità ai trasporti.

Ecco, perciò, il ricorso alla speranza che pure, a sentire Albert Camus, «al contrario di quanto si crede, equivale alla rassegnazione». E vivere, aggiunge lo scrittore francese, «non è rassegnarsi». Giusto. Anche un nostro proverbio – lo abbiamo spesso sentito ripetere dai genitori e dai nonni – ammonisce: «chi di speranza vive disperato muore».

Per Aristotele, la speranza è «un sogno fatto da svegli». Solo che i sogni sono fotosensibili, svaniscono alla luce del giorno.

Mentre mi tormento la mente con citazioni letterarie e pensieri per nulla rasserenanti, mi chiedo che senso abbia affidarsi alla speranza in una situazione così compromessa. La risposta la trovo in Georges Bernanos che scrive: «la speranza è una virtù, virtus, una determinazione eroica dell’anima. La più alta forma di speranza è la disperazione vinta». Faccio mia anche la frase di Cicerone: «Dum vita est, spes est», finché c’è vita c’è speranza. Che è – lo leggo in una riflessione dell’indimenticabile cardinale Carlo Maria Martini - «un fenomeno universale, che si trova ovunque c'è umanità, un fenomeno costituito da tre elementi: la tensione piena di attesa verso il futuro; la fiducia che tale futuro si realizzerà; la pazienza e la perseveranza nell'attenderlo». Credo che sia la definizione più appropriata.

E poiché, in fondo, come dicevano gli antichi romani, «homo quisque faber ipse fortunae suae» (ogni uomo è artefice della propria fortuna), non mi resta che fare affidamento in quella x appena percettibile, tracciata sulla scheda tra scetticismo, dubbio e diffidenza, nel segreto della cabina elettorale: considerato che di qui a breve, subito dopo la elezione del capo dello Stato, stando a quanto ci propinano quotidianamente i commentatori politici, forse toccherà a noi stessi – volenti o nolenti - diventare gli artefici del nostro avvenire, almeno di quello più immediato. Se la democrazia è il governo del popolo, si lasci che esso decida il proprio destino: liberamente, senza gli 'nciuci dei soliti noti che ammorbano il panorama politico nazionale.

martedì 23 novembre 2021

UN PENSIERO PER ALDO FALIVENA

La notizia della morte di Aldo Falivena, avvenuta ieri a Roma, in veneranda età, mi riempie il cuore di una tristezza indicibile. Lo ricordo come punto di riferimento (anche se non ho avuto la fortuna di collaborare con lui) quando, a metà del secolo scorso, iniziai l'attività di cronista in Costa d'Amalfi.

Egli, pure molto giovane, era già il capo della redazione di Salerno de Il Giornale (non "Il Giornale di Napoli", come alcuni hanno scritto), un quotidiano campano (diretto, se non sbaglio, da Alberto Consiglio) che si distingueva - nel mondo dell'informazione di allora - per la qualità delle firme, dei servizi, delle cronache. Un giornale tutto da leggere, insomma.

Nell'estate del 1955 Falivena fece il dono, a noi corrispondenti della Costiera, di pubblicare i nostri ritratti, eseguiti in modo scherzoso dal pittore Ignazio Lucibello, sotto il titolo "I componenti la stampa amalfitana" (ved. immagine). Ci dedicò, insomma, quasi mezza pagina. Mica posso scordarmelo!

Ho imparato molto da lui: leggendo i suoi articoli su Epoca, Corriere d'informazione, ecc. (pure Radiocorriere, perché no?), e seguendo i tanti bellissimi programmi che realizzava per la Rai.

Con Aldo Falivena se n'è andato un maestro di giornalismo e di vita: gentile, discreto, con quello sguardo profondo ma buono, rassicurante, che lo avvicinava a due dei suoi amici più cari, il poeta Alfonso Gatto e il pittore Mario Carotenuto. E se n'è andato, insieme, un grande salernitano, del quale la città dovrebbe conservare la memoria.


Al fratello Pietro, a tutti i familiari, esprimo sentimenti di vivissimo accorato cordoglio.

mercoledì 17 novembre 2021

QUANDO LA SANITÀ IN COSTIERA ERA ALL'ANNO ZERO. MA POTEVA CONTARE SU MEDICI EROI. RICORDO DEL DOTTOR FRANCESCO COLANGELO


Capitò tanti anni fa, quando l'Asl si chiamava Usl e il presidio ospedaliero di Castiglione di Ravello non esisteva ancora. Ci scrissi un articolo. Uno dei tanti sulla malasanità in Costa d'Amalfi.
Successe che un poveretto, un riggiolaro di Vietri sul Mare, che stava eseguendo un lavoro di pavimentazione in una casa di Minori, fu colpito da infarto. A quel tempo non c'erano sul territorio il 118, la Croce Rossa e nemmeno la Protezione civile. Per fare un esempio, ad Amalfi, in caso di necessità, si faceva capo a una delle due farmacie dove per abitudine un paio di medici (Dio li abbia in gloria) stazionavano per qualche ora di mattina e di pomeriggio.
Ma vado al fatto.
Il malcapitato fu adagiato sul sedile posteriore di un'auto e condotto velocemente all'ambulatorio della Usl di Maiori. L'uomo che lo accompagnava fermò la macchina davanti all'ingresso, salì di corsa le scale invocando a voce alta soccorso. Si imbatté in una dottoressa, che nella struttura aveva un ruolo non secondario: le spiegò ansimando la situazione, e insistette per un intervento immediato. Ma quella, frastornata, o forse presa da un attacco di panico, cominciò a correre per i corridoi, ad aprire tutte le porte, gridando: «Aiuto, chiamate un medico!», dimenticando che lei stessa lo era.
A soccorrere il malcapitato si precipitò giù in strada il dottore Francesco Colangelo, che alla Usl ricopriva il ruolo di coordinatore sanitario.
*****
Il dottor Francesco Colangelo, medico di famiglia, come lo si definiva allora, ma anche eccellente ostetrico, rimane nella memoria di chi lo ha conosciuto per quello che ha dato alla comunità di Maiori, e dell'intera Costiera, come professionista, dirigente sanitario, amministratore pubblico. Per la disponibilità nei confronti di quanti si rivolgevano a lui, per la carica di umanità e la simpatia che lo caratterizzavano. Non so quante donne abbia accompagnato nel percorso della maternità, quanti bambini abbia contribuito a far venire al mondo. Ricordo una bella caricatura del pittore Ulderico Forcellini, che lo ritraeva mentre era in attività col forcipe, esposta nel suo studio.
Medico di stampo antico, colto, preparato, dotato di grande carisma, riusciva a fronteggiare le situazioni più delicate: sempre pronto a raggiungere, sia di giorno che di notte, quando veniva chiamato al capezzale di qualche infermo, le località più impervie del territorio. Poteva contare su due fidi scudieri: Tanino, autista della sua mitica Cinquecento, e addetto a regolamentare l'accesso dei pazienti alle visite, e Costabile, che fungeva da infermiere, effettuava prelievi venosi e iniezioni. Era il tempo in cui le visite domiciliari rappresentavano una costante. Oggi sono scomparse dall’agenda del cosiddetto medico di base.
Ci eravamo conosciuti ad Amalfi in occasione di un suo incontro con l'onorevole Francesco Amodio del quale ero segretario, e s'era subito creato tra noi un rapporto di viva e sincera cordialità, di reciproca stima, di condivisione anche di scelte politiche, via via sempre più consolidatosi. Quando mi sposai nel 1971 e andai ad abitare a Maiori non ebbi dubbi nell’affidare a lui la tutela della salute mia e dei miei familiari. Seguì le gravidanze di mia moglie, poi la crescita dei miei figli.
Il professore Giuseppe Di Landro, che pure gli è stato amico, ha raccontato recentemente su Facebook un episodio che mi sembra significativo: «Avevamo trascorso un periodo di riposo a Scanno, dove ci recavamo ogni anno tra l’ultima settimana di luglio e la prima di agosto. La mattina della partenza eravamo indecisi se fare ritorno a casa attraverso la spettacolare Gola del Sagittario e poi prendere a Cocullo l’autostrada o salire al Passo Godi per Villetta Barrea e Roccaraso. Alla fine decidemmo per quest’ultimo percorso. Giunti a Caianello il telefono squillò: mia figlia mi comunicava il decesso del dottore Colangelo nel suo paese natale in Abruzzo. Come fu triste il ritorno e ancora oggi penso che se ci fossimo trattenuti ancora un po’ avremmo potuto raggiungerlo per dargli l’ultimo saluto. Oggi voglio ricordare l’uomo sempre disponibile ad aiutare il prossimo con umiltà e in silenzio e il medico pronto dove si richiedeva il suo intervento. È stato un esempio di dedizione al lavoro e un esempio di generosità verso quelli che avevano bisogno e soprattutto una persona che nella sua semplicità ha lasciato un bel ricordo nei suoi assistiti e negli amici». Un sentimento di riconoscenza largamente condiviso.
*****
Ma torno all'episodio che stavo raccontando. Accertatene le condizioni, e prestatigli le prime cure, le uniche possibili in quella difficile situazione, il dottor Colangelo decise per il ricovero immediato dell'infartuato all'ospedale più vicino, quello di Cava de' Tirreni. E diede disposizioni in tal senso.
Giustamente, l'autista dell'ambulanza fece presente che, senza un sanitario a bordo (nessuno si scandalizzi: era prassi pressoché abituale) non sarebbe partito. L'unico medico disponibile, ma riluttante fino al rifiuto, era un fresco laureato, utilizzato come "iniettore". Colangelo dovette impiegare tutta la sua autorità per convincerlo a salire sull'automezzo, che finalmente andò, come una freccia, a sirena spiegata.
A Cetara l'infermo ebbe un arresto cardiaco. Il giovane medico se la vide brutta. Fortuna volle che si trovasse nei paraggi un esperto collega di Tramonti, chiamato temporaneamente a prestare servizio alla condotta di Cetara "a scavalco". Con una ardita manovra riuscì a rimettere in moto il cuore del poveretto.
L'ambulanza riprese il viaggio verso l'ospedale di Cava, dove però quel disgraziato giunse solo per esalarvi l'ultimo respiro.
Questa era, una volta, l’organizzazione sanitaria in Costa d’Amalfi. Così malandata da poter reggere – fino a quando non s’è potuto disporre del Presidio ospedaliero di Castiglione di Ravello, come filiazione dell’Ospedale Ruggi di Salerno - soltanto per l’eroismo di medici della statura umana, professionale, morale del dottore Francesco Colangelo.
S.N.

lunedì 30 agosto 2021

VITTORIO PERROTTA E IL SOGNO DI UN MUSEO DA DEDICARE AL PADRE

Vittorio Perrotta, che con l’acquisto di Villa Savo, al Capo di Vettica di Amalfi, dove lo sguardo si proietta da un lato sulla residenza che fu di Carlo Ponti e dall’altro sulla piccola baia, già dimora degli Agnelli, dei D’Urso, della contessa Chandon, ha dato una ulteriore dimostrazione del suo attaccamento alla terra d’origine. 

In chi lo ha vissuto, torna alla mente il tempo in cui la Costiera era meta abituale della high society internazionale e le cronache si sbizzarrivano a raccontare le scorribande – in auto e in motoscafo, e poi sugli sci - della first lady d’America e il blitz della principessa monegasca sbarcata sulla Marina di Conca per tenere a battesimo la figlioletta di Ines de la Fressange nella cappella della Madonna della Neve. Chissà che il recupero di questa splendida location non possa fare da input per un nuovo "rinascimento". Perché Vittorio è un personaggio straordinario. Un novello Re Mida, capace di trasformare in oro tutto quello che tocca. Basta leggere il libro (presentato ad Atrani tre anni fa) nel quale si racconta a Mauro D’Arco, "627 scalini. La storia romanzata di Vittorio Perrotta", edito da Franco Di Mauro, per rendersene conto.

Scrive nella prefazione il sociologo Domenico De Masi: «La terra in cui Vittorio è nato e si è formato è la Magna Grecia. Proprio di fronte ad Atrani, nella striscia di terra che segna i confini del golfo, era Elea, la città di Parmenide e di Zenone. Qui, secoli addietro, si insegnava che accanto alla ‘tesis', cioè alla forma del pensiero razionale, matematico, preciso, inflessibile, esiste e potentemente opera la ‘metis', cioè quella qualità umana di cui Vittorio, figlio della Magna Grecia e delle incursioni saracene, è dotato in sommo grado. Solo chi possiede quella qualità sa ricorrere all'intuito, allo stratagemma, al combinare irrequietezza e intraprendenza, avventura e fantasia, vigile attenzione e ispirazione audace».

Mi piace, nel titolo del libro, il richiamo ai 627 scalini che, in un paese – Atrani - costretto a svilupparsi verticalmente, nella gola angusta del torrente Dragone, è necessario percorrere per raggiungere la casa dove Vittorio nacque il 24 agosto 1939. E, nel colophon, l'annotazione che il ricavato della vendita (15 euro) è devoluto alla Collegiata di Santa Maria Maddalena e alla Chiesa del Carmine.  Un atto di mecenatismo, da sommare ai tanti già compiuti, dei quali sono testimoni i suoi concittadini. Una ulteriore prova che il cordone ombelicale tra il ragazzo emigrato a Parigi e fattosi "grande" con  straordinaria caparbietà, tenacia, tante idee innovative, conservando la voglia di vivere e di scherzare, come sottolinea De Masi, è ancora perfettamente integro. Anzi, diventa più solido con lo scorrere del tempo.  Me ne sono accorto quando mi ha telefonato l’altro giorno, dal Marocco, dopo che gli avevo fatto gli auguri di compleanno su facebook.

Una folla di ricordi ha invaso la mia mente. A cominciare da quelli lontani della prima giovinezza: le romantiche serate alla Torre dell'albergo Luna, gli abbordaggi sullo stradone, sulle marine, nei night (e io scrivevo sul giornale delle pin-up-girls giunte dal Nord e catturate dai tritoni locali). Fu allora che Vittorio si guadagnò l'appellativo di Sarracino, tanto era bello, prestante: con quel viso eternamente abbronzato, che suscitava sguardi femminili ammirati e concupiscenti. E anche un po’d’invidia tra i coetanei.

Fino all’ospitalità nel meraviglioso pied-à-terre di rue St. Dominique, e all’invito nella sua maestosa residenza sulla Marne, la vigilia di un Natale. Ci venne a prendere – me e famiglia – con la Rolls Royce appartenuta al Duca di Windsor. Non ho dimenticato i salti di gioia di mio figlio Antonio al solo vedere quell’auto!

Vittorio era stato considerato un fenomeno per aver dato vita alla catena di negozi "La chef des soldes" (poi "La clef des marques"), richiamando su di sé l'attenzione delle maggiori riviste di economia. Ricordo che una volta - ero suo ospite nell'appartamento che metteva a disposizione degli amici in rue Saint-Dominique - trovai sul comodino una copia di "Le nouvel economiste" con un lungo servizio che si occupava di lui, dal titolo "Profession Soldeur". Aveva inventato un nuovo modo di far commercio: gli outlet.

Dalla capitale transalpina, poi, i suoi interessati si sono trasferiti a Cuba e, quindi, a Marrakech, in Marocco, dove ha creato 


un importante complesso residenziale. E dove vive in una splendida casa, "Villa Alessandrina", chiamata così in memoria della mamma, persona semplice e forte, venuta a mancare troppo presto, a soli 39 anni, nel 1957.

Al padre, Lorenzo, che faceva il sarto ad Amalfi in una piccola bottega al tondo Volpe, sotto l'albergo Riviera, avrebbe voluto dedicare un museo ad Atrani, ma non è stato possibile. "Per quanto io voglia regalare alla città parte delle mie collezioni – disse tre anni fa -, sembra non ci sia uno spazio comunale adatto ad ospitarla". Chissà che non possa realizzare quest’altro suo sogno proprio a Villa Savo!

© Sigismondo Nastri

domenica 29 agosto 2021

LE NOCCIOLE MEGLIO DEL VIAGRA

Sembra che dodici nocciole - quelle tonde di Giffoni, ad esempio, che sono una meraviglia -, messe a insaporire in un barattolo con miele e bucce di limone (lo sfusato amalfitano, ovviamente), consumate con regolarità (e, in particolare, all'occorrenza...), rappresentino una eccezionale carica di energia.

Giacomo Casanova ne faceva uso abbondante.

Altro che tartufo, ostriche e viagra, dunque!

Ma nun m' 'o putevano dicere... a tempo debito?

Le mie conoscenze al riguardo si sono fermate al sel de céleri (sale di sedano), del quale sentii parlare una volta in Belgio.


UNA SERENA RIFLESSIONE SUL FINE VITA E SULLA RACCOLTA DELLE FIRME [A MAIORI] PER L’EUTANASIA LEGALE

Non è legata alla raccolta di firme di stamattina, a quello che leggo su Facebook, alle discussioni innescate da un argomento così divisivo, che hanno tirato in ballo - mi riferisco a una polemica che non fa onore né ai pro né ai contro - finanche la statua della Madonna al centro del lungomare di Maiori.

Il 16 gennaio 2013, a commento di un episodio di cronaca avvenuto in Belgio, dove due fratelli gemelli, quarantacinquenni, sordi dalla nascita, che stavano perdendo la vista, avevano fatto ricorso all'eutanasia, in un ospedale di Bruxelles, scrissi: «Se la vita è un dono di Dio, ed io lo credo fermamente – un gran bel dono, nonostante le difficoltà che contrassegnano il nostro cammino – va rispettata. Sempre e in ogni caso. Comprendo la sofferenza dei due gemelli di Anversa, e di tante persone colpite da disabilità, da malattia, da solitudine, tormentate nel corpo e nella psiche, ma non dimentico che il dolore fa parte della natura umana, del nostro essere. Non è un optional che possiamo accettare o rifiutare. Pur inorridito dal gesto compiuto, consentito peraltro dalla legge belga, provo compassione per quel medico che ha iniettato la sostanza mortale – spero che non l'abbia fatto per denaro -, ma vorrei conoscere se poi egli è riuscito ad andare a letto tranquillo.

“Non uccidere” ammonisce il quinto comandamento. “Euthanatos” - “buona morte” - per me non vuol dire scegliere quando, come e dove. "Vegliate - ammonisce il Signore -, perché non sapete né il giorno né l’ora" (Mt 25,13). Vuol dire essere pronti: in sintonia col Datore della vita, in pace col prossimo e con se stessi.»

Quattro anni dopo, il suicidio assistito in una clinica svizzera di Fabiano Antoniani, Dj Fabo, l’artista quarantenne, tetraplegico e cieco dall’estate 2014 in seguito a un incidente, non mi fece cambiare opinione, nonostante il profondo rispetto di una scelta così dolorosa, così drammatica. Scelta dolorosa drammatica, ripeto: che mi riporta alla mente il caso di Eluana Englaro. E quello di tanti italiani, che hanno preso la strada della Svizzera per porre fine alla loro esistenza terrena.

Io penso e agisco - credo di agire - da cattolico. Ma - sottolineo, a scanso di equivoci -, non mi permetto di demonizzare chi non la pensa come me. Credo che in una società pluralista e democratica, come la nostra, nessuno possa imporre - su un tema così delicato, il testamento biologico, la regolamentazione per legge del fine vita - i propri valori etici e religiosi a chi non condivide la stessa fede. Non accetto le strumentalizzazioni ideologiche, da qualunque parte esse provengano. Ma non nascondo che già la parola, eutanasia, mi mette sconcerto. Proprio perché - lo ribadisco - considero la vita un dono di Dio e penso che spetti a lui deciderne inizio e fine. Già, ma la sofferenza, mi si obietterà! Che ci piaccia o meno, essa - dalle origini - fa parte della condizione umana.

Per quanto mi riguarda, non delegherei a nessuno di scrivere "the end" al mio cammino su questa terra. Non sottoscriverei mai un biotestamento. Anche se mi dovessi trovare nelle condizioni più disperate.

Capisco però che il mio modo di pensare è sorretto dalla forza della fede cristiana.

Capisco anche che vivo in uno stato laico, aconfessionale, nel quale forse i cattolici praticanti sono pure in minoranza: non posso, quindi, imporre i miei principi a chi ha un'altra visione dell'esistenza. A chi non si riconosce nei miei stessi valori.

Ribadisco quello che ho scritto in una poesia: non mi permetto di giudicare chi, stanco e depresso, getta il bastone all'angolo di una via. Ne ho rispetto, anche compassione (*).

©Sigismondo Nastri

 

(*) Compassione: "Sentimento di pietà verso chi è infelice, verso i suoi dolori, le sue disgrazie, i suoi difetti; partecipazione alle sofferenze altrui" (Treccani). "Umana cosa è aver compassione degli afflitti" (Boccaccio).