martedì 31 dicembre 2013

DOPO SESSANT'ANNI DI ATTIVITA' HA CHIUSO I BATTENTI, A MAIORI, LA BARBERIA DI GIOVANNI E SALVATORE D'UVA



La barberia dei fratelli Giovanni e Salvatore D’Uva, situata in Largo Monastero a Maiori, ha chiuso i battenti dopo oltre sessant’anni di attività ininterrotta. Il Comune ha voluto solennizzare l’avvenimento col conferimento di una targa ricordo ai due titolari, che apparivano particolarmente commossi. La cerimonia si è svolta nel salone di rappresentanza di palazzo Mezzacapo, gremito di pubblico. Nell’occasione sono stati rievocati, dal sindaco Antonio Della Pietra e dal sottoscritto, che svolgeva il ruolo di moderatore, personaggi della vecchia Maiori e antichi mestieri che rischiano di scomparire dalla memoria collettiva.

Ecco, di seguito, la mia testimonianza.
Quando ero ragazzo, ad Amalfi, il mio barbiere era Vincenzo D’Alessandro, atranese. Operava in un locale, in via Pietro Capuano, che sembrava un mastrillo, tanto era piccolo. Eppure sulla porta aveva una vistosa tabella con la scritta Salone. Se tu, entrando, eri un po’ distratto, rischiavi di andare a sbattere la fronte contro la parete dirimpetto.
Confesso una mia ignoranza: ma perché le botteghe dei barbieri si chiamano salone? Il dizionario mi dà questo significato: “Locale ampio in cui opera un parrucchiere per uomo o signora oppure si praticano cure estetiche”. A me non interessa parlare del parrucchiere per uomo, o acconciatore, o hair stylist, designer,  scultore, architetto della chioma, poeta della ‘trico art’, come amano chiamarsi oggi coloro che svolgono questa attività.
A me interessa parlare del barbiere di una volta, quello che Peppino De Filippo, nel film Totò Peppino e i fuorilegge, definisce “missionario”.  Una professione in via di estinzione, come tanti altri mestieri. Una professione soppiantata dal progresso. Credo di poter dire che, per come hanno svolto la loro attività, per sessant’anni, i fratelli D’Uva, l’appellativo di “missionari” possa essere attribuito anche a loro.
Il salone è stato sempre uno straordinario luogo d’incontro, di aggregazione. Lì si discuteva (si sparlava) di tutto. Politica, sport, economia, donne. Il tempio del pettegolezzo. Il barbiere ascoltava le confidenze dei clienti, come se fosse un confessore. Se uno aveva bisogno di sapere qualcosa da chi andava? Da lui. Diceva il comico siciliano Angelo Musco che “è meglio finire nella bocca di una cornuta e che in quella del barbiere”. Il barbiere era considerato secondo soltanto al prete e spesso ne sapeva più di lui, dato che non tutti si andavano a confessare.
A fine anno i barbieri regalavano un minuscolo calendario a fisarmonica, densamente profumato, con immagini a colori, quasi scolpite, di belle donne in atteggiamenti considerati provocanti dalla morale dell’epoca.  Qualcuno devo averlo ancora, conservato in un cassetto.
Spesso i saloni erano anche scuola per chitarra e mandolino. La tradizione vuole che il barbiere avesse una particolare vocazione per la musica. Spesso faceva parte di gruppi, chiamati ad allietare le feste di matrimonio, che si svolgevano rigorosamente in casa.
Le origini del lavoro del barbiere si perdono nella notte dei tempi. Presso i romani quest’attività aveva una reputazione notevole. Il buon cittadino dell’antica Roma gli faceva visita ogni giorno per tenersi in ordine. Per un adolescente la prima rasatura era un evento che segnava il passaggio al mondo adulto.
Dal barbiere si andava, si va ancora, va per tutti i normali bisogni di pettinatura e taglio di capelli. Un po' meno, per la barba. Ma, una volta, si ricorreva a lui anche per piccoli interventi chirurgici, per applicare le sanguisughe (era il rimedio più seguito per contrastare l’ipertensione), o per fare un un clistere, incidere bolle e pustole, addirittura per cavare i denti.
Dal Medioevo il simbolo convenzionale usato dai barbieri è il palo rotante a strisce bianche e rosse. Passando con l’auto per il corso Garibaldi, a Salerno, se ne vede ancora uno fare bella mostra davanti a un salone.

venerdì 27 dicembre 2013

IL MIO INTERVENTO ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO "RITMI DEL CUORE" DI PICTOR PETRUS (PIETRO SCOPPETTA)



Amalfi, venerdì 27 dicembre 2013, ore 17.00
Sala della Biblioteca comunale 



Pietro Scoppetta è morto a Napoli nel  1920. Era nato ad Amalfi nel 1863. Aveva cinquantasette anni. Nella lapide celebrativa apposta poco dopo,  dirimpetto al mare, il drammaturgo Roberto Bracco, che era tra i suoi amici più cari, volle sottolinearne la pura e grande anima, “adulta nell’arte ancora fanciulla nella vita”. A centocinquant’anni dalla nascita, Amalfi ha fatto bene a ricordarlo con la bella mostra allestita negli arsenali, dove non sono esposti dipinti, ma suggestive illustrazioni: di canzoni, romanzi, frontespizi di libri editi all’estero, in particolare in Francia e in Austria. E poi le cartoline, tante. Ho letto da qualche parte che faceva queste cose per guadagnarsi da vivere. Ma le faceva col rigore e l’inventiva dell’artista.

Scoppetta, dunque, non è stato dimenticato dalla sua terra. Gli sono state dedicate due importanti mostre: la prima, del giugno-luglio 1963, nell’Arsenale, a cura di Alfredo Schettini, e l’altra, ancora più completa, del dicembre 1998, a palazzo sant’Agostino, sede della Provincia, a cura di Massimo Bignardi. A entrambe ho avuto la fortuna di dare il mio piccolo contributo. Nel ’63 facevo parte del comitato organizzatore, nel ’98 ho collaborato con Bignardi in fase di allestimento e poi con un saggio, in catalogo, nel quale ho trattato le vicende della vita sociale in costiera tra la seconda metà dell’ottocento e i primi decenni del novecento. Dico di più: la mostra del ’63 partì proprio da una idea, sostenuta dal pittore Almerico Tomaselli,  torinese ma salernitano di origine, che allora guidava l’annuale raduno dei pittori piemontesi in costiera. Tomaselli venne tenuto fuori dall’organizzazione e ci rimase male. Conservo una lettera nella quale mi esprime delusione e disappunto.

Questa sera non mi azzarderò a parlare di Pietro Scoppetta come artista, non è il mio compito.come

Dirò qualche parola sul libro. Soprattutto sulla sua genesi. Vi prego di avere la pazienza di ascoltarmi.

“Ritmi del cuore” fu pubblicato con lo pseudonimo “Pictor Petrus” da L’editrice italiana  nel 1919, un anno prima della morte dell’autore.  Nel 1981 Giuseppe De Luca, che ne era entrato in possesso (il libro non era facilmente reperibile sul mercato antiquario), lo ristampò in copia anastatica. La nuova edizione, di cui trattiamo questa sera, a cura di Antonio Porpora Anastasio, per conto del Centro di Cultura e del Comune, si differenzia dalle precedenti per poche ma significative varianti, suggerite ad Antonio Porpora Anastasio dalla consultazione di un testo dattiloscritto appartenuto al nonno, del quale egli porta il nome: un avvocato molto amico di Scoppetta. Sono stati corretti i tanti errori tipografici contenuti nell'edizione del 1919.

Esprimo qui un'opinione del tutto personale: ci avrei visto bene una breve introduzione neppure critica, ma volta a chiarire, per quanto possibile, le motivazioni che hanno spinto l’artista, uomo di cultura, eclettico, pittore e musicista, a mettere sulla carta i propri sentimenti. E, ovviamente, una scheda biografica. Per evitare che qualche sprovveduto venga indotto a domandarsi: Pictor Petrus, Scoppetta, chi è costui?

“Ritmi del cuore”: già il titolo appare illuminante. E’ la storia di un amore raccontata in versi. D’altronde, la poesia, prima ancora che metrica e pagina scritta, non è forse uno stato d’animo, una lettura della propria anima, della propria vita? Un modo di sfogarsi, rendendo gli altri partecipi di gioie, dolori, delusioni, vittorie, sconfitte?  Nella prefazione alle sue “Ballate liriche” William Wordsworth definisce il poeta “un uomo che si compiace delle proprie passioni e dei propri desideri, e che - più degli altri uomini – gioisce dello spirito della vita che è in lui…”. Il poeta, in fin dei conti,  è un uomo: sia pure dotato di sensibilità più viva, di maggiore entusiasmo e tenerezza, di una più profonda conoscenza della natura umana e di un animo più vasto di quanto si ritenga comune all'umanità. Il poeta è un uomo che parla ad altri uomini. Ma è, soprattutto, colui che sa cogliere i momenti felici dell'ispirazione per trasfigurare in poesia le immagini della quotidianità. Come il pittore, come il musicista. E’ quel che avviene in qualsiasi forma d’arte.

Tra le ragioni che spingono a scrivere poesie c’è quella di manifestare un amore, di conquistare il cuore dell’amata, di proclamare la propria felicità o infelicità,  a seconda delle situazioni, degli stati d’animo. “Dal culmine della felicità da cui discendo, / io ne discendo ebbro. / Porto con me il contatto con la Dea.” E’ questa la poesia che apre la raccolta.  Spetta a noi capire chi sia questa dea. La dichiarazione si fa via via più esplicita: “Per un immenso amore / occorre l’incontro di una beltà meravigliosa / e di un grande cuore. Ecco perché il mio amore è immenso…”.

La raccolta comprende 67 poesie. Più una, aggiunta dal curatore in appendice. Che, però, essendo datata 1898, non può essere messa in relazione a tutte le altre. Tranne l’ultima, che ha un titolo: “Come la luna”, tutte le altre hanno una numerazione progressiva.  Leggendole , nell’ordine in cui sono inserite nel libro, a me sembra di scorrere le pagine di un diario intimo, riferito a una storia tormentata, che procura al protagonista - il pittore diventato poeta - più lacrime che sorrisi. Peccato che non siano datate.

Le poesie di “Ritmi del cuore” coprono, secondo me - lo dico sulla base delle informazioni raccolte nei nei testi che ho consultati -, un arco di tempo che va dal 1916 al 1919: un periodo  caratterizzato da una ardente passione amorosa, che rende l’artista particolarmente inquieto. Aveva scorazzato per l’Europa: Parigi, Londra, Monaco, Milano, Venezia. Nella Ville Lumière, in particolare, era stato accolto come un petit maître. Aveva partecipato alla vita dei boulevards, degli Champs-Elisées, di Montmartre.

Il ritorno a Napoli lo aveva mandato in crisi. Riferisce Alfredo Schettini che “aveva paura della solitudine della sua camera da scapolo, della solitudine triste del suo letto: aveva cioè terrore del sonno che, negli ultimi tempi della sua vita, si trasformava in soffocanti incubi; non tanto per la guerra che lo tormentava come una malattia, ma semplicemente perché egli non poteva più starsene solo coi suoi pensieri: quella solitudine, nel suo letto, lo spaventava”.

A tutto questo si aggiunge una crisi di innamoramento. “Una passione struggente – nota Massimo Bignardi -, un sentimento intenso, coltivato segretamente nel corso degli ultimi sei anni”, che si riflette prepotentemente nella sua pittura. Se è vero, ed è vero, che nei suoi ritratti di donna appare quasi sempre lo stesso volto: quello di  Maria Valdambrini Carrara, che egli battezza come la sua “Samaritana”:

”Non fosti tu la mia Samaritana / nella landa deserta? / Tu m’offristi uno spicchio soltanto / del tuo cuore d’arancia, / e ancor sulle mie labbra / sento il dolce liquore, / ancor nelle mie vene / corre l’ebbrezza del possente aroma! / Non fosti tu la mia Samaritana /nella landa deserta?”.

Scoppetta l’aveva conosciuta tra il 1911 e il 1912 nel salotto dell’attrice Vittorina Lepanto, a Roma. Lei, giovane marchesa, appartenente all’aristocrazia capitolina, bellissima, era sposata con Pietro Carrara, facoltoso imprenditore di origine bergamasca, con interessi nel mondo dello spettacolo. La coppia viveva a Roma, in un villino di via Nomentana. Scoppetta diventò ben presto loro amico, frequentò la loro casa romana e quella delle vacanze a Siderno, in Calabria. Maria, che dimostrava attitudini per l’arte, fu sua allieva, sua modella. Oltre che sua mecenate.

Alla personale del gennaio 1918 alla galleria Geri di Milano, alcune opere esposte si riferivano direttamente a lei: Bignardi cita “La scolara attenta”, “Lezione di pittura”, “La pittrice”.

Un amore disperato, impossibile? Tenuto segreto, eppure reso esplicito da una serie di ritratti, il primo dei quali risale al 1916-17. Peccato che sia andato perduto (esiste solo una riproduzione fotografica). Scoppetta aveva cinquant’anni, lei era giovane, brillante, piena di interessi, madre della piccola Elsa alla quale lui s’era molto affezionato, tanto da raffigurarla spesso, anche fra le braccia della mamma.

Dicevo prima che le poesie di questo libro mi sembrano pagine di diario. La convinzione mi viene da un particolare, messo in evidenza proprio da Bignardi. Nei documenti conservati dagli eredi Carrara, cioè gli eredi di Maria Valdambrini e del marito,  v’è una copia della prima edizione di “Ritmi del cuore”, quella del 1919. Nelle pagine bianche, dopo l’indice, vi sono incollati quattro piccoli fogli tratti da un block-notes con frasi scritte di pugno dall’artista. Ipotizzo che si tratti di altre poesie inserite in coda al libro  stampato. Quanto meno alla copia destinata a una persona, a quella persona. Non potrebbe essere altrimenti. In una recensione, su Il Mezzogiorno del 29 ottobre 1919, Ferdinando Russo parla di "delicata e tormentata psiche di Pietro Scoppetta". A proposito delle poesie, le definisce "stati vibranti della sua psiche. Schizzi. Acquerelli. Appunti direi quasi stenograficiDocumenti, ma mirabili, ma strazianti". E stigmatizza chi ci ha riso sopra. "Non ha capito - aggiunge. - Chi confonde l'Amore con 'gli amori' non può capire"-

Certo è che Scoppetta mantenne stretto il rapporto d’amicizia con Pietro Carrara fino agli ultimi giorni di vita. Ne è prova una lettera speditagli  il 4 febbraio del 1920, cinque giorni prima della morte improvvisa.

Io non so dire fino a che punto egli visse una vicenda sentimentale, o passionale, o semplicemente fu tormentato da uno struggimento d’amore, consapevole del vincolo matrimoniale che legava la donna e della differenza d’età che poteva farla apparire più una figlia che un’amante. Lo dichiara egli stesso nella poesia contrassegnata dal numero 6: “Eravam fatti per viaggiare insieme. / Ma tu venisti tardi; io troppo presto. / Tu sali ora nel treno ed io ne scendo;  / ed è un viaggio che non si rifà. / Pochi minuti di fermata. Il tempo / di guardarsi per gli occhi dentro l’anima / e dirsi: Buon viaggio, Buon riposo!…”.
Sigismondo Nastri




28 DICEMBRE, A MAIORI: LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO "PENZANNO E SCRIVENNO" DI GIUSEPPE CAPONE

Nei giorni scorsi, l'amico Agostino Ferraiuolo mi fece leggere nel suo negozio la poesia di Giuseppe Capone che ha vinto il primo premio ad Atrani nel concorso dedicato all'indimenticabile Michele Buonocore. Poi ho avuto modo di incontrare, sempre da Agostino, l'autore e gli ho fatto i complimenti. In un'epoca che sta completamente snaturando la nostra lingua - il napoletano, voglio dire - trovare uno che lo sa scrivere fa veramente piacere.
Domani, sabato 28 dicembre, alle ore 18.30,  Giuseppe Capone, che ricordo mio alunno all'istituto professionale di Amalfi, presenta il suo "Penzanno e scrivenno" nel salone di rappresentanza di palazzo Mezzacapo a Maiori. Non ci potrò andare e mi dispiace molto. Gli auguro il migliore successo.
Il libro non l'ho ancora visto, mi riferisco quindi alle informazioni contenute nel comunicato stampa, or ora pervenutomi. 
«Quella di Giuseppe Capone è una piccola, ma significativa e meritoria crociata. Nel nome della lingua napoletana. E della cultura identitaria del suo popolo - sottolinea nella prefazione Franco Bruno Vitolo. - Capone ha trentaquattro anni ed è cresciuto nell’era della tecnologia, del linguaggio globalizzato e del dialetto emarginato o ignorato. Ma egli si incaponisce e va controcorrente: estraendo dal pozzo dell’anima il meglio della sua sensibilità umana, si muove alla scoperta ed all’analisi dei testi sacri targati Napoli e ci fa trovare di fronte al paradosso di un giovane che, con ormai rara precisione ortografica e versi fluenti in rime sonore, scrive per trasmettere il linguaggio-radice e la cultura-radice, con uno spirito quasi da caminetto da nonno di altri tempi.»
Le sottolineature musicali saranno dei fratelli Amodio, appassionati interpreti della canzone classica napoletana.