venerdì 7 settembre 2018

APPUNTI DI CUCINA POVERA. DIAVOLO D’UN PEPERONCINO NELLE PENNE ALL’ARRABBIATA

Il pepàino, così lo chiamano a Maiori. Diavolo di un peperoncino. E’ sempre più difficile trovarne piccanti. Veramente piccanti. Quando ci provo, al mercato di Torrione, a Salerno, resto quasi sempre deluso dopo aver litigato, magari, col venditore al quale mi rivolgo abitualmente. In qualche circostanza mi ha addirittura sfidato ad assaggiarlo e, visto che lo masticavo senza problemi, ha fatto la... faccia del pastore della meraviglia nel presepe. I peperoncini piccanti, quelli col fuoco dentro per intenderci, li ho avuti regalati dalla signora Marilena del Frescale, a Tramonti, e dal mio amico Gennaro, ad Agerola. Quelli, sì! Ne ho conservato i semi e li coltivo in vaso sul terrazzo di casa.
Ci sono pietanze che, senza na ponta ‘e forte, perdono il loro sapore.

Sempre a proposito di peperoncini, mi capitò di vederne, a Parigi, in una esposizione di frutta e verdura. Fui colpito dal fatto che non erano come i nostri. Avevano la stessa forma, miniaturizzata, di quelli grossi che prepariamo arrostiti o in agrodolce. Cercai di toccarli col dito, fui subito redarguito. Decisi allora di comprarne tre. Mi furono consegnati accuratamente chiusi in un sacchetto di carta con la raccomandazione di stare attento quando lo avrei aperto, perché solo a guardarli avrebbero lasciato il segno. “All’anema d’ ‘a palla”, pensai.
Tornato a casa, appena cominciai a scartocciarli, insieme con mia moglie e i miei figli, i vapori si sparsero rapidissimamente in tutta la stanza, tanto che fummo costretti a rifugiarci in terrazza. Ci ritrovammo con gli occhi gonfi, che lacrimavano, e con un insopportabile bruciore al naso. Capimmo subito che non erano adatti all’impiego in cucina: avrebbero reso il cibo immangiabile.
Quei peperoncini, m’era stato detto, provenivano dai possedimenti francesi d’oltremare.
Bando a tutto ciò che è esotico, estraneo alle nostre conoscenze, perciò. Affidiamoci al tradizionale ediavulillo paesano, a chilometro zero.
ben collaudato
Una pietanza, nella quale non se ne può fare a meno? Le penne all’arrabbiata. Ecco la ricetta. Si mette a imbiondire un trito di aglio e cipolla nell’olio evo, aggiungendovi del lardo accuratamente allacciato sul tagliere. Si lascia rosolare per qualche minuto, poi vi si uniscono il peperoncino e i pomodorini, facendo addensare la salsa a fuoco vivace. Intanto si lessano le penne che, scolate al dente, vengono unite alla salsa in una zuppiera, mescolate bene, con l’aggiunta di una ricca grattata di pecorino (da solo, o misto a parmigiano).
Il grado di piccantezza, che rende il piatto arraggiato, dipende dalla varietà, qualità e quantità del peperoncino – esiste un’apposita scala di valutazione - ma è legato anche alla percezione sensoriale, che è sempre soggettiva. L'importante è non esagerare.
© Sigismondo Nastri

UN RICORDO DI CLEMENTE TAFURI

Rovistando tra le mie carte, un po' per rimetterle in ordine (cosa alquanto improbabile), un po' per deciderne la futura collocazione (un problema che, a 83 anni, mi assilla parecchio), ho ritrovato questo libro che ebbi regalato, nell'estate del 1952, con una sua dedica (a Sisgimondo, così mi chiamava), da Clemente Tafuri. È una monografia dell'artista - "Clemente da Salerno, poeta del colore" - scritta da Settimio Mobilio, che non era solo un grande avvocato, anche un profondo conoscitore d'arte.
Tafuri - osserva Mobilio - è nato, si è educato nel nostro secolo [il XX] ed ha seguito la sua via, cioè gli impulsi del suo temperamento, senza badare a scuole che egli non ha conosciuto. E aggiunge: "In arte pura non vi sono scuole, perché l'arte è manifestazione spontanea della persona, è attività di pensiero e di sentimento che trae dall'io le sorgenti delle sue espressioni". Credo che il giudizio sia perfettamente attinente al personaggio, che amava ripetere, compiacendosene: "Io seguo me stesso", cioè il suo impulso, i suoi stati d'animo.
Nato a Salerno il 18 agosto 1903, deceduto a Genova l'11 dicembre 1971, Clemente Tafuri può essere considerato l'ultimo rappresentante di una pittura tardottocentesca che a Napoli aveva come protagonisti Michele Cammarano, Vincenzo Irolli, Antonio Mancini. Una pittura che resisteva ai nuovi movimenti che si facevano strada in Europa e in Italia. Eppure, quando espose a Parigi nel 1951, nella galleria Bernheim-jeune al numero 83 di rue Faubourg Saint-Honoré, il critico Pierre Andrien - sulla rivista Le point de d'art - sottolineò che nei suoi dipinti non c'era nessun bluff, nessun pugno nello stomaco, ma soltanto una bellezza sfolgorante.
Io lo conobbi e lo frequentai nei primi anni cinquanta .- ero già corrispondente di giornali - quando aveva preso in fitto la pensione Belvedere a Conca dei Marini per dedicarsi - credo di ricordare - al ritratto di Salvo D'Acquisto commissionatogli dall'Arma dei Carabinieri. Aveva a disposizione due militari che gli facevano da scorta, oltre che da modello. Una sera venne alla torre dell'albergo Luna dove, sulla terrazza proiettata arditamente sul mare, si poteva ascoltare una musica dolce e appassionata. Apparve imponente, spavaldo, come un moschettiere uscito dalle pagine di Alessandro Dumas. Spavaldo anche nell'incontro con i pittori piemontesi che in quel periodo tenevano il loro raduno in Costiera, su invito dell'Ente provinciale per il turismo. E, se la memoria non mi tradisce, tra questi c'erano artisti che si chiamavano Francesco Menzio, Italo Cremona, Luigi Spazzapan.
Tafuri è un pittore ormai dimenticato da Salerno, che pure gli intitolò, sull'onda emotiva provocata dalla sua scomparsa, un bel pezzo di lungomare. Con l'eccezione del bel calendario 2018 dell'Azienda grafica e cartaria De Luca, curato da Marco Alfano, presentato il 28 dicembre dell'anno scorso a Palazzo di Città.
A quando una mostra rievocativa? Segnalo qui che, fra tre anni, ricorrerà il cinquantesimo anniversario della morte.
Sigismondo Nastri

giovedì 6 settembre 2018

UNA RIFLESSIONE SULLA CANNARIZIA

A conferma del declino preoccupante della lingua napoletana - e non solo quella scritta, peraltro complicata (a proposito, che orrore i testi di certe canzoni di oggi! da mettersi le mani nei capelli!), anche quella parlata, con la quale è cresciuta la mia generazione, ormai imbastardita da cattivo italiano e inglesismi vari - cito il fatto che da molte parti mi viene chiesto il significato della parola cannarizia che ha dato titolo al mio “ricettario in prosa”, edito da Areablu fuori commercio. Per la verità mi viene anche chiesto dove e come reperire il libro e questo mi mette in serio imbarazzo. Spero che, prima o poi, l’editore valuti l’opportunità di una ristampa da affidare ai circuiti di vendita. Gliene do piena facoltà.
Nella Canzone de lo Capo d’Anno, della quale curai per De Luca un'edizione in pregiata carta d'Amalfi di Amatruda, a proposito delle spese folli che caratterizzano il periodo natalizio, c’è una strofa che recita così: “la gente trase e esce, / e corre, e va e vene, / e spenne quanno tene pe’ la canna”.
La canna è la gola, il condotto attraverso il quale ingurgitiamo il cibo: detto anche, in modo dispregiativo, cannarone o cannaruozzo. L’azione dell’ingoiare è cannarià. Il goloso è 'o cannaruto.
A volte, se non riusciamo a ottenere una cosa che desideriamo fortemente, diciamo che ci è rimasta ‘ncanna. E se vogliamo mandare un’imprecazione a chi, magari – facciamo che si tratti di una leccornia -, la sta consumando avidamente in solitudine, diciamo: “puozze annuzzà’ ‘ncanna” (che tu possa soffocare). Non dovrebbe capitare mai. Il napoletano sa bene – perché gli è stato trasmesso dagli antenati - che “chi magna sulo s’affoca” (chi mangia da solo si strozza).
La cannarizi”, o cannarutizia, è la golosità, non intesa come ingordigia, ma come piacere di assaporare pietanze prelibate, dolci o salate che siano. E’ peccato? Forse sì, ma veniale, da non riferire nel confessionale. Chi ne è esente, si faccia avanti. Un antico proverbio ammonisce che “adda murì’ ‘e truono chi nun lle piace ‘o buono” (deve morire di tuono colui al quale non piace ciò che è buono).

© Sigismondo Nastri

mercoledì 15 agosto 2018

IL 3 OTTOBRE RICORRERA’ IL 60° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI CESARE GIULIO VIOLA. IL COMUNE DI POSITANO FACCIA QUALCOSA PER RICORDARLO


Non amo la sdraio. Ne ho due, non mi ci siedo mai. Non amo la sdraio da quando a Positano ne rimase vittima, sul terrazzo di casa, il commediografo Cesare Giulio Viola. Avvenne il 3 ottobre 1958. Il telo sul quale s’era adagiato per godersi la vista del mare all’improvviso si squarciò.  Batté la testa e gli fu fatale. Viola, nato a Taranto il 26 novembre 1886, s’era affermato come scrittore, commediografo e sceneggiatore di teatro, televisione e cinema. Per la sceneggiatura vantava anche una candidatura all’Oscar.
M’interessai a lui per due lavori: “Canadà” (tre atti, Mondadori, 1950) e, in modo particolare,  “Nora seconda” (tre atti, prefazione di Eligio Possenti, Bologna 1956) che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto dare un seguito all’interrogativo col quale s’era chiuso il dramma ibseniano “Casa di bambola”. Non mi piacque. Non c’era nulla del pathos dell’autore nordico.
In “Canadà” mi sorprese il riferimento alla Grotta dello smeraldo. Trascrivo qui il breve dialogo tra i protagonisti della commedia, Joe e Olga:
«OLGA. E perché dici queste cose? (fissandolo) Dimmi che mi vuoi bene… Mi fa piacere sentirmelo dire…
JOE. Ti voglio bene…
OLGA. Non così… Come quella sera, ti ricordi, a Roma… Come quel giorno ad Amalfi, nella grotta dello Smeraldo… Io voglio tornare ad Amalfi e voglio comprarmi quella grotta, e voglio murarla perché nessuno c’entri più… Dimmi che mi vuoi bene come allora… È vero, Joe?».
Tra meno di due mesi, il 3 ottobre, ricorrerà il sessantesimo anniversario della morte di Viola. Sarebbe il caso che il Comune di Positano si facesse promotore di una cerimonia – meglio, un incontro di studio -, per richiamare l’attenzione degli studiosi sulla sua opera, soprattutto per ricordare quanto egli amasse il paese della Costiera.
© Sigismondo Nastri

venerdì 27 luglio 2018

RIFLESSIONI NOTTURNE. L'ECLISSE


Una giornata che si annuncia calda (e non poteva essere diversamente), afosa (come le altre che ci hanno preceduto in questo periodo), ma con l'attesa di quello che è stato sempre considerato - scienziati a parte - il più misterioso, affascinante, inquietante spettacolo visibile dalla superficie terrestre: l'eclissi.
Stasera staremo tutti a guardare il cielo, a spiare, come si fa dal buco di una serratura, quello che - mi fu detto una volta, ragazzo - è un ménage a trois tra Terra, Luna e Sole, che si sovrappongono come amanti. Per un lungo amplesso, a luce smorzata. Non riuscivo a capire, allora, come fosse possibile. Poi me lo hanno spiegato.
Ecco come descrive la scena The International Encyclopedia of Astronomy: “Il cielo si fa più buio, assumendo spesso una lugubre sfumatura verdastra indescrivibile e molto diversa dal buio provocato dalle nuvole... Negli ultimissimi secondi della fase parziale la luce cala di colpo, la temperatura scende sensibilmente, gli uccelli si appollaiano, alcuni fiori chiudono la corolla e il vento si placa... Sulla campagna scendono le tenebre”. Anche sul mare, certo. Sarà silenzio.
Me ne starò zitto anch'io, naso all'insù, orecchie appizzate, a godermi la scena, e anche in ascolto dei sospiri, dei gemiti, delle grida di soddisfazione che potranno venirmi dalla volta stellata nel momento clou dell'incontro, l'orgasmo. Quello della Luna, certo, per la Terra non è più tempo. La nostra Terra vive stancamente la sua menopausa, è diventata vecchia.
© mondosigi

giovedì 26 luglio 2018

RIFLESSIONI NOTTURNE. "FULL PARKING" AD AMALFI


Ho visto un post sul "tutto esaurito" dei parcheggi ad Amalfi. Messo bene in evidenza da cartelli informatori. Non lo trovo più su Facebook. In questo caso, presumo, il povero viaggiatore, che magari viene da chissà quanto lontano, e ha faticato non poco ad arrivare a destinazione, vuoi per il caldo, vuoi per il traffico intenso e caotico, non sa cosa fare. 
M'è venuto subito a mente che, tanti anni fa, ad Amalfi i gabinetti pubblici stavano all'uscita della Porta della Marina, stretti in uno spazio ridottissimo. Si scendevano alcuni gradini per arrivare agli orinatori e, credo, all'unico wc disponibile. Se ne occupava un militante Pci, Ferrigno (del quale ora mi sfugge il nome), seguace dell'ing. Ruggiero Francese, leader indiscusso del partito. Era un lettore assiduo dell'Unità, come del resto, allora, ogni milirtante. E siccome la ressa era continua, Ferrigno ebbe un'idea geniale. Affisse un avviso all'ingresso sul quale era scritto a caratteri cubitali, in più lingue: "In caso di affollamento, rivolgetevi all'Ufficio turistico". La notizia fu riportata dalla stampa (Il Borghese le riservò un commento veramente sfottente).
Ma l'automobilista che oggi non trova dove parcheggiare l'auto a chi santo deve rivolgersi: all'ACI? O al ministro Toninelli?

mercoledì 25 luglio 2018

RICORDO DI GASPARE DI LIETO (E UN PO' DI AMARCORD)

Quando vivevo ad Amalfi, passando per la piazza del Duomo, non riuscivo a immaginare lo spazio retrostante la fontana del Popolo, dominata dalla statua di marmo dell'apostolo Andrea, senza che si intravedesse, all'ingresso del suo stracolmo negozio di ceramica, la figura pacioccona, simpatica, sorridente e accogliente di Gaspare Di Lieto. Mi fermavo a parlare con lui ed era sempre un piacere ascoltarlo.
Il mio rapporto con i Di Lieto risale a quando, ragazzo, frequentavo l’Azione cattolica. Il fratello Teodoro ne era presidente. Divideva il tempo tra negozio e Seminario dove era ospitato il Centro diocesano A.C. Lì tenevamo le nostre riunioni. Ma conoscevo bene anche il padre, don Matteo, che da stagnaro si era trasformato in maestro eccelso nel modellare la creta. Realizzò il presepe sommerso per la Grotta dello smeraldo, le tavole della Via Crucis per l’ex cattedrale di Scala, tante altre piccole opere che fanno gola ai collezionisti. Ne ho comprato su internet quando ho potuto. Riuscì a mettere la ceramica di Atrani, dove la si lavorava, in competizione con quella di Vietri sul Mare. L’industria grafica e cartaria De Luca, alcuni anni fa, le ha dedicato uno splendido calendario. In quella piccola azienda, erano impegnati, con compiti diversi, i figli. In particolare Mario, che aveva seguito studi d’arte ed era un pittore veramente bravo.
Una volta i dipendenti della piccola fabbrica, situata in un vicoletto accessibile sia dalla strada statale che dalla piazzetta, indissero uno sciopero. Per una rivendicazione economica. Me ne parlarono. Senza nemmeno pensarci mi schierai al loro fianco con un articolo sul Quotidiano (giornale, manco a farlo apposta, legato alla Chiesa e ai vescovi). Ci andai pesante. Ero giovanissimo (16-17 anni), di esperienza ne avevo poca. Gaspare si prese collera, indisse una conferenza stampa con la presenza dei sindacati. La cosa si chiarì, rimanemmo amici.
Nel periodo in cui abitavo nel palazzo Amodio, sulla Sciulia, avevamo come dirimpettaia la sorella di Gaspare, la signora Rosa. Le nostre case erano divise dallo stretto corridoio chiamato via Arsina: una distanza di un metro, un metro e mezzo. Ricordo lunghe chiacchierate tra lei e mia madre attraverso le finestre. Ogni tanto si passavano, allungando la mano, qualcosa: una cipolla, una testa d’aglio, un mazzetto di prezzemolo, una foglia di basilico, secondo le necessità di ciascuna.
Ero, e sono, amico di Gennaro, il figlio più piccolo di Matteo Di Lieto. Un’amicizia che risale a quando avevamo i calzoni corti, che solo la lontananza poi ha dilatato.
Gaspare, morto alla vigilia dei cento anni, si prendeva cura del negozio. Lo ha fatto per lunghissimo tempo, da diventare figura storica di piazza Duomo e dintorni: come lo erano – mi affido alla memoria, chiedo scusa per le dimenticanze (chi può, mi dia una mano) - Emiddio ‘a pumpinara che, lì vicino, vendeva il pesce; accanto alla accattivante espoosizione di frutta e verdure di Giuseppe Buonocore, detto Peppe 'a pizzeria, che in seguito si spostò allo Spirito Santo; lo storico salumiere Pittiasso (e poi il nipote Alfonso Della Monica); Giovanni Stinga, ‘o Surrentino (tessuti); la signora Francese Colavolpe, nell'antica pasticceria ricca di specchi e mobili raffinati, seduta alla cassa col micio in grembo; il gioielliere Andrea Fusco, la figlia e il figlio Saverio; l’indimenticabile Mofone, Alfonso Mostacciuolo, col suo bazar, dirimpetto al Banco di Napoli; il fotografo Tommaso Piumelli; ‘O Pulveristo, Antonio Acampora, cavaliere e coltivatore diretto (nonché consigliere comunale di rispetto) che gestiva un’osteria all’inizio del supportico dei Ferrari; il salumiere Andrea Torre; il giornalaio Andrea Savo, vera memoria storica della città, con le figliuole (che mi consentivano tutte le mattine di fare rassegna stampa); ‘O Poerlo, Teodoro Giunchiglia, ‘ncazzuso ma simpatico, inappuntabile fruttivendolo; Masaniello, Luigi Gambardella, re indiscusso del pesce fresco; la signora Abbagnara Pagano, che esponeva l'insegna Novità all'angolo della sciulia, e lì vicino la bancarella del pesce di Paolillo: il profumiere Mario Barra; il barbiere-chitarrista Peripere, di cui mi sfugge il nome; Nicolino De Stefano, 'o cafettiere, e le sue ineguagliabili granite di limone; l’orefice Antonio Esposito; Adriana col suo bel negozio di scarpe e l’accento senese che non aveva dimenticato, nonostante il matrimonio con un amalfitano doc, Nicola Savo. Aveva rilevato il locale dove prima c'era la merceria di Elena Serretiello, moglie di mio zio Gigino Nastri. E prima, molto prima, c'era la farmacia, pure Nastri, dove fu architettato un delitto politico nel 1909, quando ad Amalfi si contrastavano il partito delle giacchette e quello delle sciamberghe. Avrò modo di trattarne se campo ancora un po'; l'attrezzato salone di barbiere e parrucchiere di Gioacchino Serretiello, ci potevi fare pure il manicure; la merceria di Sisina 'e Mundello a lato della banca; don Antonio Buonocore, signore di stampo antico, che aveva la salumeria accanto all’ingresso del seminario. La moglie, Ida Perez, signora elegante e gentile, era una cantante dalla voce purissima. Il suo repertorio attingeva alle belle canzoni di Mimì Lagrotta, altro personaggio che non dovrebbe scomparire dalla nostra memoria collettiva; il pizzaiolo Andrea Buonocore (che la sera lanciava la chiama: E’ cavera ‘a pizza, ‘o pizzaiuolo!; Andrea Cimino, 'o direttore, e Antonio Buonsostegni, colonne della pasticceria Pansa, che una nuova generazione delĺa famiglia sta rilanciando a liveĺli altissimi (come faccio a non citare qui la fabbrica di confetti, canditi e dolciumi vari lungo la via della cartera 'ranna e villa Paradiso - 'o Chiano 'e Panza, paradiso dei limoni - al quale si accede dall'artistico cancello, a lato di quella che era la casa dei miei nonni materni? Allora, tempo di guerra e immediato dopoguerra, dava lavoro a molte famiglie che curavano a domicilio l'incarto delle caramelle); il farmacista Bonaventura Falcone, dove immancabilmente, se ti serviva un medico, trovavi ad aspettarti il dottor Ferdinando Paolillo; Enrico Bastolla e la sua elegante boutique; il tabaccaio Andrea Florio e il pasticciere Gaetano Amatruda (vero masto della pastiera), all’uscita dalla piazza.
In piazza era anche la sede dell’Azienda turismo, guidata dall'avvocato Leopoldo Fiorentino e diretta da Andrea Colavolpe, persona squisitissima, anima d’artista, innamorato pazzo della sua città. Non ho citato Nunzio Scoppetta, è ancora sulla breccia. Gli mando un caro saluto.
La mia simpatia per Gaspare era giustificata anche da un altro motivo. Aveva sposato un’affascinante, dolcissima ragazza del mio quartiere: ‘e ‘ncoppa ‘e grare longhe, lungo la via che conduce al Santuario della Madonna del Rosario. Ermelinda Imperato, figlia di don Giovanni, imprenditore che ha fatto la storia della carta ad Amalfi. Io ero piccolo quando si fidanzarono. Ogni volta che mi incontrava la signora Ermelinda mi chiamava, come facevano a casa mia, col secondo nome, Nicola.

Sigismondo era troppo lungo. Con un nome troppo lungo, sosteneva Massimo Troisi, un bambino “viene scostumato”.
© Sigismondo Nastri

IL "J'ACCUSE" DEL PARROCO DI RAVELLO CONTRO I FRACASSONI NOTTURNI SCUOTE POLITICA E SOCIETA'

Leggo ora un articolo di Antonio Schiavo sul Vescovado, a proposito degli schiamazzi notturni a Ravello. Premetto che, pur trattando della Città della musica, che è anche città dell’arte, della letteratura, della cultura tout court, il problema non è circoscritto lì, ma diffuso su tutto il nostro territorio: se vado a sfogliare le cronache recenti e passate trovo molti elementi per una seria riflessione su come è cambiato il costume, il modo di far turismo, su come è venuto meno nella nostra società il rispetto per tutto quello che non ci tocca direttamente. Mi viene in mente un’espressione volgare, ma la riporto addolcita: a tre metri di lontananza da me, ognuno faccia quello che vuole. A volte, però, non riusciamo a rispettare neppure noi stessi. Mi piace come Schiavo conclude il suo intervento, rivolgendosi al parroco don Angelo Antonio Mansi. Con le stesse parole usate, nel 1494, da Pier Capponi nei confronti di Carlo VIII che aveva presentato un ultimatum, ricevendone un rifiuto, alla Signoria fiorentina. Il re aveva minacciato di suonare le sue "trombe”. Il condottiero toscano rispose: “E noi suoneremo le nostre campane”. Oltretutto al parroco nessuno potrà rimproverare nulla. Sono o non sono, le campane, come ci hanno insegnato, ‘a voce ‘e Dio?
E’ stato proprio don Angelo Antonio, a quanto leggo, a levare il dito contro i fracassoni notturni. Egli vive nella casa canonica, attigua al Duomo, con le finestre che affacciano sulla piazza. La notte è fatta per il sonno e ad averne maggiormente bisogno sono le persone più impegnate di giorno. Non i fannulloni. Un parroco, ad esempio, pastore di anime, capo di una piccola comunità di fedeli. Custode di ansie, dubbi, situazioni difficili, problemi esistenziali che gli vengono confidati nella sagrestia o nel segreto del confessionale. Di cui si deve caricare per farsene tramite e affidarle alla misericordia divina. Non credo che a fine giornata, pur raccogliendosi in preghiera, possa andare a letto sereno. Forse gli è già difficile prender sonno. Poi ci si mettono quelli che fanno caciara sotto le stelle a tenerlo ancor più in agitazione. Conosco don Angelo Antonio da tempi lontani. Siamo stati colleghi nell’insegnamento. L’ho sempre apprezzato per la dottrina, la sensibilità umana, per l’impegno nel farsi apostolo del Vangelo. Ma, quando si innervosisce, non si tira indietro nella discussione. Lo apprezzo per questo. Il grido d’allarme ha indotto altri a scendere in campo, ha scosso qualche coscienza: tra amministratori, operatori turistici, cittadini (non è solo la canonica, del resto, che si riflette sul lucido pavimento della piazza del Duomo). Antonio Schiavo ha citato esperienze dirette subite da lui e dalla sua famiglia. Spero che si trovi il modo di assicurare vivibilità a chi risiede a Ravello, si sbraccia, lavora, fa crescere l’economia. E ai tanti che ci vengono per respirarne l’ésprit, per goderne le bellezze, anche per sposarsi (perché non c’è luogo più bello per coronare un amore), non per cafonerie e cialtronerie varie. Magari sotto l'effetto di alcol o chissà che. Come dicevo all’inizio, non è sotto attacco soltanto Ravello. Anche altri luoghi della Costiera. Solo che è qui, a Ravello (che non per niente si chiamava Rebellum, cioè “ribelle”) c’è stato chi ha avuto il coraggio di scendere in campo, con parole chiare. E con l’autorevolezza del suo ruolo. Altrove, magari, ci si adatta. Si va a dormire con i tappi nelle orecchie.
© Sigismondo Nastri

lunedì 23 luglio 2018

SPUNTI DI RIFLESSIONE SUL TURISMO CAFONE E VOLGARE IN COSTIERA

Non ho possibilità di constatarlo di persona (maledetta lombosciatalgia!), mi riferisco a quello che viene postato su Facebook. Lo spunto me lo dà uno scritto di Secondo Amalfitano, ex sindaco di Ravello, direttore di quel gioiellino che è Villa Rufolo, riportato a nuovi splendori. Egli dichiara, non so se più sconsolato o arrabbiato: «I matrimoni cafoni e caciari inquinano e distruggono la nostra identità, compromettendo il futuro dei nostri figli e lo stesso segmento del turismo matrimoniale che tanti soldi sta riversando su Ravello. È da criminali consentire che le notti ravellesi, ma anche i giorni, vengono disturbati da orde di ubriaconi incolti e cafoni»

Gli fa eco qualcuno da Amalfi definendo “terra di barbari” quel che resta dell’antica regina del mare. E non solo. Trovo una foto che mostra un carrettino per le granite fermo sotto la scalinata del duomo: niente di scandaoloso, ma non mi pare un bell’esempio (preferisco altre immagini di quel luogo di fede e di memoria eretto dalla devozione dei nostri antenati). Come quello di un gruppo di persone che bivaccano tranquilli in uno spazio pubblico. Avviene anche a Roma, e non è cosa di poco conto. Neppure Positano sembra che se la passi bene. Come Maiori, del resto, che ha la comodità di un lungomare ampio, frondoso, denso di panchine.
Quando l’arcivescovo Mons. Orazio Soricelli, nel dicembre del 2000, in occasione del convegno “La memoria per il futuro della Costa”, mi chiese l’editoriale per la sua rivista Fermento, scrissi:
«“Friggi e mangia”: mi sembra di poter condensare in queste due parole, oggi, l’immagine di Amalfi. Attrezzata, nemmeno tanto, a un turismo estraneo alla sua vocazione. Perché la città appartiene a un comprensorio – ne rappresenta il fulcro, con la sua storia, le sue testimonianze d’arte, la sua bellezza – tradizionalmente destinato a un turismo di qualità: quello che da un po’ di anni si sta portando avanti a Ravello, con risultati positivi. E’ vero, a Ravello lo si è potuto fare grazie a strutture ricettive di assoluta eccellenza. Come a Positano, del resto, dove si cerca di frenare i flussi frenetici di vacanzieri. Ad Amalfi, invece, è su questo fenomeno – il “mordi e fuggi” - che si fonda l’economia. A vantaggio di pochi, il resto della popolazione ne subisce le conseguenze negative. Occorrerebbero politiche adeguate. Una città d’arte, a vocazione turistica – interessata a quello che si definisce heritage tourism -, dovrebbe avere servizi adeguati, spazi vitali capaci di contribuire alla qualità della vita, un’articolazione organica delle attività commerciali e offrire uno shopping di lusso, com’è in altri luoghi d’élite, non soltanto pizzetterie, tavole calde, limoncello.
La massificazione del turismo, che ha portato a una diffusione capillare di “B&B”, si trova a fare i conti con l’inadeguatezza del sistema strutturale e infrastrutturale. Vale per tutti i centri costieri. Forse meno per le aree interne, dove c’è una migliore distribuzione degli spazi e una maggiore attenzione alle peculiarità ambientali.
Nessuno s’è accorto che negli ultimi decenni sono scomparsi dal territorio della Costiera i grandi nomi della economia, dell’alta finanza, della cultura, dell’imprenditoria che qui avevano le loro residenze estive.
Tutta la mobilità avviene attraverso la statale 163, che non è in grado di sopportare l’eccessivo flusso veicolare: soprattutto nei week-end, in occasione delle grandi festività, nel periodo balneare.  E si pensa a nuove strade, a una galleria che dovrebbe collegare Maiori con Cava de’ Tirreni. Ingolfando ancora di più i nostri paesi.
Nonostante ci sia una Conferenza dei sindaci non c’è unità di vedute. Si ragiona in ottica locale.  È questo il primo problema da affrontare: la mancanza di un coordinamento che superi un campanilismo atavico, nell’ottica di una progettazione seria, oculata, complessiva delle esigenze del territorio: nella prospettiva auspicabile di uno sviluppo ordinato, che coinvolga tutti i dodici comuni».
Non è servito nemmeno come spunto di riflessione e di analisi. A diciotto anni di distanza la situazione non è migliorata. Il tessuto sociale, che è «l'insieme di elementi uniti tra loro in modo omogeneo» (cit. Treccani) s'è sgretolato progressivamente. Prevale l’egoismo, ognuno bada al proprio orticello (operatori economici, quelli del settore ricettivo, della ristorazione, del commercio ad esempio), non si governa il territorio con idee chiare, in maniera coordinata e univoca.
Tengo fuori dal discorso la droga, che circola (come dimostrano certe azioni, anche recenti, dei carabinieri che svolgono un lavoro assiduo e attento) e, dulcis in fundo, le coltivazioni di cannabis scoperte sulle nostre montagne.
Mi dispiace che nelle maglie del turismo cafone, casinista, volgare, sia incappata pure Ravello. Dove qualche giorno fa il sindaco ha dovuto prendere posizione contro i procacciatori di clienti per negozi e ristoranti (esistono solo a Ravello? mi chiedo), perché «ne va della buona reputazione del paese». Servirà a qualcosa? 
Ma non è di questo che voglio occuparmi. Dico solo che il problema posto sul tappeto - tranquillità, ordine, igiene, sicurezza, salvaguardia dei beni storici, artistici, paesaggistici e ambientali -  è dilagante, le città d'arte ne soffrono, da Venezia alla punta estrema della Sicilia. Il nostro territorio, ahinoi!, non fa eccezione.
Il mondo è cambiato velocissimamente sotto i nostri occhi e non ce ne siamo neppure accorti.
 «Il buonsenso che fu già caposcuola» (Giusti) è morto, insieme alla buona creanza, nelle famiglie, nelle scuole, nella stessa organizzazione della società. Perfino tra chi governa la nazione, figuriamoci! Tutto è diventato tollerabile, se non ritenuto addirittura lecito. Ci sono leggi, decreti, ordinanze, divieti, avvisi: restano sulla G.U. (per la storia), o affissi a un albo pretorio (come lo si chiamava una volta) o postati online. Tanto ognuno si spiccia da sé. Le stalle si sono aperte, i buoi sono scappati: dubito che si riesca a riportarli indietro.
Che futuro si prepara? Io sono vecchio, non lo vedrò.
© Sigismondo Nastri

RIFLESSIONI NOTTURNE. FONDAMENTALISMO, NON SOLTANTO QUELLO ISLAMICO


Mio figlio ha vissuto a Milano per oltre dieci anni. Abitava a piazzale Maciachini. Quando andavo a trovarlo facevo lunghe passeggiate, e non solo verso viale Stelvio, per allungarmi fino a santa Maria alla fontana, per la messa, o al quartiere isola, per il mercato. Percorrevo le due strade che costeggiano il palazzo: viale Jenner da un lato, feudo musulmano (c'è pure una moschea), viale Imbonati dalĺ'altro (invaso da cinesi). Mi fermavo a parlare (la curiosità del giornalista m'è rimasta attaccata alla pelle), entravo nei loro negozi. Non ho mai avuto problemi. Nessuno sgarbo. Ne trovavo accanto a me, anche nella metro. 
Certo, esiste il fondamentalismo che è altra cosa: non solo quello islamico, anche il nostro, cattolico.
Il fondamentalismo delle idee (o integralismo) è "l'atteggiamento di chi attribuisce alle proprie opinioni, e in particolare alla propria fede religiosa, un valore assoluto e dominante rispetto a quelle altrui".(cit.). Oggi ci si combatte tra integralismo e relativismo. Occorre una profonda opera di educazione alla ragione, su entrambi i fronti, tesa a creare una società nuova dove si possa convivere ciascuno professando la propria fede e le proprie idee, liberamente, nel rispetto di quelle degli altri.
È difficile, lo so, ma il mondo globalizzato, nel quale i confini vanno sempre più appannandosi, e le migrazioni diventano labili (checché ne pensi il ministro dell’Interno Salvini), ce lo impone.
© Sigismondo Nastri
 

RIFLESSIONI NOTTURNE. LA FIAT, GLI AGNELLI, VITTORIO VALLETTA E SERGIO MARCHIONNE


Io non amo la Fiat, da quando nel 1998 provai ad acquistare la Brava (o Bravo, non ricordo bene). Andai da parecchi concessionari a Salerno e in provincia (uno mi era pure amico): stesso modello, stesso colore, stessi accessori. Niente omogeneità di prezzo. Una differenza non di spiccioli. Rimasi perplesso. Optai per una macchina giapponese: i punti vendita erano pochi, allargai il giro fino a Caserta trovando prezzi perfettamente uguali, peraltro non superiori alla Brava. Scelsi la vettura nipponica, non mi ha mai lasciato a terra e dopo vent'anni fa ancora bella figura.
Non amo la Fiat, ripeto, e conseguentemente la squadra di calcio che la rappresenta.
Il mio incontro con Susanna Agnelli, nel 1996, a Ravello
Eppure ho avuto grande ammirazione per Gianni Agnelli, che ha rappresentato l'Italia a livelli altissimi nell'impresa, nella politica, nella mondanità e nella moda (oltretutto era un amante della Costa d'Amalfi, con casa a Conca dei Marini), ho avuto modo di conoscere Susanna Agnelli, persona squisitissima, quando era ministro degli Esteri. Con la stessa ammirazione ho seguito l'ascesa ai vertici del colosso automobilistico di Sergio Marchionne, self-made man, assurto al ruolo di grande manager, come lo era stato nell'immediato dopoguerra Vittorio Valletta. Solo che Marchionne - da vero abruzzese - ha avuto un carattere più schietto, leale (altro che i "torinesi falsi e cortesi" del famoso proverbio), diventando antipatico a molti: quando gli è parso necessario ha dato bastonate a governi, istituzioni, sindacati. Ai lavoratori. Ha tirato fuori la Fiat dalla Confindustria
Ha condotto operazioni di immensa portata, evitando il fallimento sia dell'azienda torinese sia dell'americana Chrysler. La storia dell'economia italiana e mondiale gliene darà merito.
Trovo un elemento di somiglianza (pur avendo essi fisionomie e stazza differenti - uno, gracile e minuto, l'altro prestante e robusto) tra Valletta e Marchionne. Entrambi, personaggi schivi, estranei alla deriva mondana: il primo si muoveva a Torino, negli anni del dopoguerra, alla guida di una 500; l'altro ha conservato la sua immagine, destinata a diventare iconica, con l'abituale maglioncino blu. Non rinunciandovi neppure quando andava alla Casa Bianca o al Quirinale.
Si sentiva un uomo solo perché "chi comanda è solo". Altri dicono che è stato "lo Steve jobs dell"auto". Le due definizioni si saldano.
© Sigismondo Nastri

sabato 23 giugno 2018

MERCOLEDI' 28 GIUGNO TORNA LA "LAMPENARIA DI SAN PIETRO" A SCALA


Nella notte che precede la festa del santo protettore, il principe degli apostoli, secondo un rituale che affonda le sue radici nella storia, gli abitanti della frazione San Pietro di Scala sono soliti raccogliere frasche, legno ed altro per farne una catasta, alla quale dar fuoco al calare delle tenebre e all'apparire delle prime lucciole (ammesso che ve ne siano ancora: sono anni che non riesco più a vederne. Pare che inquinamento atmosferico e indiscriminato uso di anticrittogamici e pesticidi in agricoltura le stiano portando all’estinzione).
Una festa vera, genuina, perché semplice e povera, dove contano ancora i sentimenti che scaturiscono dalla purezza delle fiamme purificatrici, capaci di tenere unita, in allegria, una comunità, che uscita dall'inverno celebra ancora, come avveniva una volta, l'inizio dell'estate. Se ne occupano giovani e bambini, impegnati per giorni a raccogliere legna da accatastare nella piazzetta. 
Una tradizione – la cosiddetta “Lampenaria di San Pietro” - che viene riproposta ogni anno con un duplice intento: quello di tener viva la memoria collettiva, da tramandare alle future generazioni, e quello della promozione turistica. Si tratta, in ogni caso, di un gioco che dura una settimana ed è l’occasione per ritrovarsi, consolidare le amicizie, ma anche per discutere delle semine e dei futuri raccolti. 
L’appuntamento è per mercoledì 28 giugno, alle ore 21,00.

venerdì 1 giugno 2018

RIFLESSIONI NOTTURNE. ELOGIO, NON RICHIESTO, DI LUIGI DI MAIO


Ce ne sono tanti, nella società e in parlamento (ne conosco, ce ne sono sempre stati), che non hanno mai lavorato e vivono esclusivamente di politica, che non è cosa disdicevole (c'è anche chi ha fatto solo lo scout prima di arrampicarsi sui palazzi del potere). 
Prendersela con Luigi Di Maio. detto "Giggino", mi sembra eccessivo. Lui almeno ci ha provato, adattandosi a fare, conseguita la maturità classica, il webmaster e persino lo steward allo stadio san Paolo. Non ritengo che debba vergognarsene. Avrebbe dovuto, se mai, vergognarsi il Cavaliere quando gli ha... proposto di andare a lavare i cessi a Mediaset. 
Di Maio un po' di gavetta l'ha fatta. Poi è stato conquistato dalla politica (meglio che gli spinelli... no?). Magari lo facessero tutti i giovani, invece di perdere il tempo allo smarphone, alla playstation o a doparsi! Se è arrivato dove è arrivato (lo fanno passare per fesso e non mi pare che lo sia, qualche svarione di grammatica nel parlare può capitare a chiunque: ne sento da conduttori di telegiornali e opinionisti tv) - senza avere alle spalle una famiglia importante o la grande finanza, i grandi potentati economici -, Di Maio se l'è conquistato con le unghie e coi denti. 
Ha ottenuto undici milioni di voti, come leader di partito, e non è poco. Undici milioni di idioti? Se fosse così, non ci sarebbero più speranze per questo paese. No, undici milioni di italiani arrabbiati, tartassati, delusi dai vecchi governanti. Sembra che nessuno se ne voglia rendere conto. Che si tenti di sottovalutare un fenomeno che rischia di sgretolare quel che resta della coesione sociale.
A scanso di equivoci, aggiungo che non ho niente a che vedere con il M5S, non l'ho votato, non ne condivido metodi, idee, programmi. Dall'alto dei miei 83 anni, però, guardo a questo ragazzo di Pomigliano d'Arco - ragazzo del Sud, di periferia, self made man -, con tenerezza (e, a volte, indulgenza...).:

giovedì 31 maggio 2018

MEMORIE SALERNITANE. RICORDO DI MARIA VEDETTI, "OSCURA BENEFATTRICE"

Il caso mi ha messo tra le mani una copia del Mattino, datata 8 febbraio 1951. Sfogliandola, sono attratto da un articolo, nella pagina di Salerno, su Maria Vedetti, definita nel titolo "oscura benefattrice". La "popolana", morta a causa di un tumore sei giorni prima, a 52 anni, era conosciuta quale venditrice di "spassatiempe" e altre leccornie.

"La si vedeva ogni mattina col bello e cattivo tempo nei pressi dell'edificio delle scuola 'Gennaro Barra' e in villa comunale, circondata da tanti scolaretti, ai quali vendeva la sua modesta mercanzia: caramelle, confetti, quaderni e penne". 
Mia moglie, che all'epoca era una ragazzina, e frequentava le elementari, mi dice che Maria arrivava la mattina, prima che suonasse la campanella di entrata, vestita abitualmente di nero, portandosi dietro, su uno sgangherato carrettino, un seggiolino, una valigia di latta e, immancabile, l'ombrello. Una volta che s'era seduta, metteva la valigia sulle gambe e l'apriva: nei vari scomparti c'erano girandole, bombon, caramelle di liquirizia, e altre leccornie, molto desiderate dai bambini. Poi si spostava nella vicina villa comunale e ricompariva alla fine delle lezioni. Con i suoi piccoli guadagni - leggo nell'articolo - Maria Vedetti, figura tipica di Salerno, si era prodigata "per il mantenimento agli studi di tre futuri religiosi". Uno, "già ottimo e pio sacerdote, in un paese vicino al Capoluogo".
"Del suo meschino 'commercio' - scriveva il Mattino - dava parte a poveri disoccupati: partecipava, attivamente, quale 'socia', all'invio diegli infermi gravi a Lourdes". Era, insomma, una benefattrice che aveva lavorato, nonostante la terribile malattia, fino a trenta giorni prima della dipartita. Le esequie registrarono una grande partecipazione di popolo. Sottolineata la presenza, tra le Dame della Carità, delle signore Bonacci, Emanuelita Centola-Santoro, Vanna Romagnano Buonocore.

sabato 26 maggio 2018

RIFLESSIONI NOTTURNE. IL PRESIDENTE MATTARELLA, CONTE, SAVONA & C.


Un’idea sulla situazione politica, che rende complicato il varo del governo, me la son fatta. Può darsi che sia sbagliata – non sono un costituzionalista, mi esprimo da uomo della strada -, ma voglio esporla qui, dopo aver premesso che non parteggio per il M5S o la Lega – non ho votato né per l’uno né per l’altra -, e neppure per il Quirinale.
Piaccia o non piaccia, dopo i primi tentativi, puntualmente falliti (dar vita a un’alleanza tra Centro-destra e grillini, poi tra questi e il Pd o tra Centro-destra e Pd), una maggioranza in Parlamento s’è formata - M5S e Lega -, espressione del 55% di quanti il 4 marzo, da bravi cittadini, si sono recati alle urne. Discutibile quanto vogliamo, ma c’è. Con un programma trasformato addirittura in “contratto” tra le due parti, che possiamo definire populista, sovranista, o come vogliamo, ma che comunque fa riferimento a quel 55% dell’elettorato che ha scelto M5S e Lega. Che io sappia, un programma politico viene portato avanti da chi lo ha elaborato e se ne fa carico, non viene affidato per l’esecuzione a chi non lo condivide. E’ inimmaginabile che in quel governo trovino spazio personalità che non si riconoscono nel programma.
Ecco perché, a mio avviso, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non può imporre a Matteo Salvini e Luigi Di Maio, leader dei partiti che hanno la maggioranza alla Camera e al Senato, un ministro dell’Economia diverso da quello che hanno indicato. A meno che non giudichi Paolo Savona “indegno” di ricoprire la carica. Non bastano le divergenze sul ruolo dell’Italia in Europa. L'Italia, mi par di sapere, è una repubblica parlamentare nella quale la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei modi previsti dalla Costituzione, attraverso i suoi rappresentanti eletti in parlamento. La linea politica di un governo, perciò, non è espressa dal capo dello Stato, ma dai partiti che lo sostengono. Il potere della fiducia (o sfiducia) è prerogativa del parlamento. 
Se il Presidente Mattarella ha dovuto conferire l’incarico di formare il governo al Professore Giuseppe Conte – sicuramente contro la sua volontà - è perché gli è stato chiesto con forza, addirittura con una procedura irrituale, da M5S e Lega. Non poteva decidere diversamente. Vale, secondo me, anche per la nomina dei ministri. 
Sic stantibus rebus, il Capo dello Stato se la sente di mandare tutto a scatafascio perché Paolo Savona ha una visione dell’Europa che non combacia con la sua o perché deve cedere alle pressioni - rese pubbliche dai media - dei poteri forti dell’Unione Europea? Si aprirebbe una campagna elettorale aspra, rissosa, forse anche violenta, capace di accentuare le divisioni tra gli italiani e di mettere in discussione, più di quanto avviene adesso, il ruolo stesso del Presidente della Repubblica quale “rappresentante dell’unità nazionale”.

venerdì 25 maggio 2018

LA SIGNORA, IL QUADRO, LA SCARAMANZIA


Esco di casa per sbrigare qualche faccenda, nei paraggi, e, come di consueto, faccio tappa nella bottega del mio amico Adriano, maestro del colore, per scambiare qualche parola e per un po’ di relax. Lì una sedia è sempre disponibile. Entra una signora, bionda, con un cagnolino al guinzaglio: un pincher, maschio. Meno male - mi viene subito da pensare - che non ho con me Chanel, la chiwawa, da ieri in calore. La signora vuol vendere un quadro. Adriano, col garbo che gli è congeniale, cerca di farle capire che non gli interessa. “Io – dice – i quadri li faccio, non li compro”. “Perché, voi siete pittore?” chiede la signora. Adriano risponde che tutti i dipinti alle pareti sono suoi. Lei, dopo aver dato uno sguardo in giro, gli fa notare che un quadro ha valore solo dopo la morte dell’artista che lo ha realizzato.

Suggerisco ad Adriano qualche gesto scaramantico, come toccar ferro, e, intanto, tengo ben ferme le mie mani in una certa posizione, pronto a... proteggermi. Lo so che non serve, non ci credo, ma in momenti difficili come questo non resisto alla tentazione. Lei se ne accorge e incalza: “Siete superstizioso?”, Non rispondo e passo rapidamente all’azione. E' volgare, non venite a ricordarmelo, ma è un modo, credo, per farle capire che la deve smettere. Macché! “Non vi grattate – ammonisce – perché vi fa male alla prostata”. “Non ho problemi di prostata” replico, infastidito. “Ah, siete ancora attivo?”. “Attivissimo, collaudato” le rispondo, stavolta con una punta di orgoglio. E intanto lei mi sferra il colpo finale: “Voi avete un’età, si vede, siete anziano. È inutile che vi grattate. Lo sapete bene che dovete morire”. Riesco giusto a gridarle: “Da dove diavolo siete uscita? Chi vi ci ha mandata qui dentro?”. La signora tira il guinzaglio e se ne va, disinvoltamente, insieme col cane.
Sigismondo Nastri


martedì 22 maggio 2018

RIFLESSIONI NOTTURNE. LA ONOREVOLE CIRINNA' E LO STATO DELLA SANITA' IN ITALIA


L'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, operato d'urgenza al cuore un mese fa all'ospedale San Camillo di Roma, è tornato a casa. Mi fa piacere. Auguri!
Quando se n'è data notizia su Sky, la onorevole Monica Cirinnà del Pd - che partecipava a un dibattito sulla situazione politica - ha commentato: E' la prova che la sanità italiana è di altissima qualità. 
Vero, niente da eccepire. Ci sono aree di eccellenza assoluta. Ma ce ne sono altre in cui il diritto dei cittadini alla salute e all'accesso ad una sanità universale ed equa è negato. Le cronache portano continuamente all'attenzione della pubblica opinione episodi di inefficienza, di malasanità. 
Vorrei porre una domanda alla onorevole Cirinnà: quanti cittadini, colpiti dalla stessa patologia del presidente Napolitano, hanno la possibilità di farsi operare dal prof. Francesco Musumeci
Una sanità, per essere eccellente, ha bisogno di avere strutture e professionalità eccellenti distribuite su tutto il territorio nazionale. Fin quando questo non avverrà, continueranno i viaggi della speranza al Nord, intasando le liste d'attesa. Al Nord, dove peraltro la presenza di sanitari provenienti dal meridione è abbastanza consistente.
Le statistiche dicono che la Lombardia importa da altre regioni 161.000 pazienti l'anno e vanta un credito di 808,6 milioni di euro (un vero business, penso); all'opposto la Calabria è in rosso per 319 milioni. A seguire, in questa black list, la Campania che deve saldare prestazioni per 302 milioni fuori dai propri confini, e il Lazio che la tallona a quota 289 milioni. Possibile che la onorevole Cirinnà non ne sia informata?

domenica 20 maggio 2018

RIFLESSIONE NOTTURNA. VITA DA CANI, SPAPARANZATI SUL LETTONE

L'altro giorno il Corriere della sera ha pubblicato un lungo articolo, a firma Margherita De Bac, dal titolo "Vita da cani (tra le lenzuola)". Alcuni dati pubblicati mi sembrano interessanti: 60 milioni di animali da compagnia - cani, 7 milioni, e gatti, 7 milioni e mezzo - sono presenti nelle case degli italiani; il 58 per cento degli italiani possiede un animale da compagnia, il 20 per cento ne ha due. Tralascio quelli che riguardano alimentazione, vaccinazioni, cure mediche, che hanno costi non irrilevanti. 
Il 50 per cento dei cani - scrive Margherita De Bac - dorme con i padroni. Già, perché "s'è rovescìato il meraviglioso mondo degli animali domestici". Altro che cuccia! Il letto, accanto ai padroni, è sicuramente più comodo e confortevole. 
Chiedetelo alla mia piccola Chanel!

RIFLESSIONI NOTTURNE. L'ADDIO DI GIANLUIGI BUFFON E LE ESAGERAZIONI NEI GIUDIZI SUI CALCIATORI


Io non mi permetto di giudicare un atleta per quello che fa nella vita privata (vale per Buffon come per gli altri). Fatti suoi. Se sbaglia, contravviene alle regole, ci sono organismi apposta per i provvedimenti conseguenti. 
Ciò chiarito, dico che Gianluigi Buffon è stato un grande portiere. Anzi, grandissimo. Non "il più grande portiere della storia del calcio", come vorrebbe qualcuno. Ce ne sono stati altri, eccome che ci sono stati. Ne cito soltanto due: Yachin e Zamora. Potrei aggiungerci  (tra gli italiani) Bacigalupo (morto troppo presto, nella sciagura di Superga), Sentimenti IV, Albertosi, e così via. Ma, mi domando, come si fa a mettere a confronto atleti vissuti in epoche diverse, che hanno giocato un calcio diverso, su campi che erano diversi - dalla terra battuta si è passati al manto erboso, ora anche all'erba sintetica - , con scarpe diverse? Dalle scarpe di cuoio a caviglia alta,  pesanti, si è passati ad eleganti scarpini, firmati e sponsorizzati. E poi i palloni: che erano a pannelli sagomati incrociati e cuciti, con camera d'aria, che se te ne arrivava uno in faccia finivi dritto all'ospedale.  Oggi sono termosaldati, perfettamente sferici e non aumentano di peso impregnandosi d'acqua in caso di pioggia.
Ricordo che i terreni di gioco erano così duri da costringere i portieri a indossare ginocchiere, a proteggersi con spessi maglioni di lana. Di lana erano  le maglie degli altri calciatori. Ora si usano quelle di poliestere, a tecnologia avanzata,  capaci di far traspirare il sudore e il calore del corpo
Evitiamo esagerazioni, perciò. Non esiste "il più grande portiere della storia del calcio", non esiste "il più grande calciatore della storia". Le valutazioni sono sempre soggettive e, ahinoi!, non dimostrabili.

sabato 19 maggio 2018

RIFLESSIONI NOTTURNE. MAGGIO, PRELUDIO DELL'ESTATE


Mi sveglio [non ora, alle 6.30], tiro su la persiana: il sole è appena spuntato dietro le case di Mercatello. Si annuncia una splendida giornata. Una di quelle che non sai se è meglio trascorrerla al mare o in campagna. Fate voi.
Mi viene in mente un vecchio proverbio: “Maggio fa belle ‘e figliole e po’ giugno s’ ‘e gode ô sole” [sarebbe giugno, insomma, a beneficiarne]. Giugno, che è fatto di tanti sguardi, ammirati o concupiscenti, come quello delle lucertole appena uscite dal letargo. Non il mio, mannaggia!, appannato dall'età veneranda [si dice così, no?] e dalla cataratta.
Del resto, si sa: “Quanno maggio trase [e ormai stiamo ben oltre la metà del mese] ‘e vase songo comme ‘e cerase” [hai una voglia matta di mangiarne a iosa, una tira l'altra].
Auguri!

giovedì 17 maggio 2018

RIFLESSIONI NOTTURNE. FACEBOOK, GRAMELLINI E LE SUORE DI CLAUSURA


Massimo Gramellini, nella sua consueta rubrica sul Corriere della sera, sotto il titolo "Suor Facebook", ironizza pesantemente sul fatto che le suore di clausura possano usare i social network anche se dovranno farlo - avverte una disposizione della Santa Sede - "con sobrietà e discrezione". Cosa che peraltro già avviene. 

Tra le mie "amicizie" su Facebook ci sono le Monache di clausura di un paese vicino alla mia residenza. Leggo i loro post su "spiritualità, gioia, sorriso, preghiera" che le contraddistinguono, sulle funzioni religiose, le attività educative e umanitarie svolte, cerco di far miei i loro inviti alla preghiera. 
Ogni volta che vado sulla pagina Facebook di queste suore scopro motivi di sostegno al mio essere credente: come quando leggo l'invito a trovare "la forza di amare sempre più, il coraggio di osare anche controcorrente, la dolcezza di perdonare senza misura, la fede che tutto spera e mai resta delusa". Niente a che vedere con le situazioni sulle quali si sofferma la satira di Gramellini. 
Queste suore non sono estrapolate dal mondo, "isolate in uno spazio chiuso senza rapporti diretti con l'esterno". Affacciano il loro sguardo sul mondo, ne percepiscono i bisogni, le difficoltà, i guasti, le ingiustizie, soffrono per le guerre, le violenze che lo attraversano, ne fanno oggetto delle loro suppliche. Perché la preghiera è il cardine deĺla nostra vita, attraverso la preghiera si trasmettono a Dio i nostri desideri, i nostri bisogni.
Oggi, alla Vita in diretta su Rai1, ho ascoltato la testimonianza del padre di una giovane che, dopo essersi laureata, ha scelto, quindici anni fa, di diventare trappista nella comunità di Vitorchiano.
Trovo significativo, e meritevole di attenta riflessione, il post delle Carmelitane di Hondarribia, in Spagna, a proposito di uno stupro avvenuto a Pamplona. "Noi viviamo in clausura - hanno scritto -, portiamo un abito quasi fino alle caviglie, non usciamo di notte, non andiamo a feste, non assumiamo alcol e abbiamo fatto voto di castità. Questa è una scelta che non ci rende migliori né peggiori di chiunque altro, anche se paradossalmente ci renderà più libere e felici di altri. E perché è una scelta libera, difenderemo con tutti i mezzi a nostra disposizione (questo è uno) il diritto di tutte le donne a fare liberamente il contrario senza che vengano giudicate, violentate, intimidite, uccise o umiliate per questo". Una lezione di stile, di civiltà, di modernità oso dire. Dalla quale emerge piena conoscenza, e grande sensibilità, rispetto agli accadimenti del mondo. 
Altro che le battute sarcastiche e irriverenti di Gramellini!

mercoledì 16 maggio 2018

RIFLESSIONI NOTTURNE. SALVINI, DI MAIO E IL LORO TENTATIVO DI FORMARE IL GOVERNO

Da quando esiste il mondo, credo, la vita dell'essere umano è indirizzata al dominio sull'altro e sugli altri. Avvenne con Eva [altro che sesso debole!] nei confronti di Adamo, con Caino a danno di Abele. Poi la storia, scorrendo attraverso i millenni, ha fatto il resto. Questo vale nella famiglia, nella società, negli affari. Figuriamoci in politica. 

Chi decide di impegnarsi nella vita pubblica è mosso da ambizione, voglia di potere ('o cummannà è meglio d' 'o fottere, si è sempre detto), mera autoesaltazione. Spesso, da interesse (di appartenenza o addirittura personale). E' inutile fingere di non capirlo. Non escludo che qualcuno lo faccia per spirito di servizio. Ci mancherebbe!
Matteo Salvini e Luigi Di Maio - più di sedici milioni di voti, in totale, alle elezioni del 4 marzo - non rappresentano l'eccezione alla regola. Ma nelle stanze dei bottoni ancora non sono entrati. Ridicolizzarli o, peggio, criminalizzarli per lo sforzo, che stanno compiendo, di mettersi insieme per dar vita a un governo non mi sembra corretto. Aspettiamo che ci riescano (se ci riusciranno). E giudichiamoli per quello che saranno capaci di fare (o non riusciranno a fare). 
Si dice in modo dispregiativo che siano espressione dell'antisistema. Che vogliano, cioè, rovesciare le strutture e le basi del sistema sociale e statuale (quello che in Italia privilegia le lobby economico-finanziarie e pesa sulle classi più deboli della società). 
E' inaccettabile che a muovere i fili siano soltanto Matteo Renzi e il "riabilitato" Silvio Berlusconi. Se si fa strada un elemento di novità nel panorama stagnante della politica io - che non ho votato per la Lega e neppure per il M5S - sono disposto ad accoglierlo quantomeno con curiosità. Non invoco san Paolo [protettore dai morsi dei rettili] se prima non ho visto la serpe.

lunedì 14 maggio 2018

RIFLESSIONI NOTTURNE. LA TRAGEDIA PALESTINESE E IL MONDO CHE STA A GUARDARE

Ė vergognoso, inaccettabile, atroce che il popolo israeliano, che ha sofferto l'olocausto, e che per questo ha meritato la solidarietà di tutto il mondo, si renda responsabile di atti di violenza nei confronti di un altro popolo, quello palestinese, che reclama il suo diritto ad avere una patria, un territorio non colonizzato, una propria sicurezza. Una propria dignità. Non si può rispondere con la forza militare a chi non ha altre armi che le pietre. Non si può, non si deve, è criminale uccidere donne e bambini. Ĺa decisione americana di trasferire l'ambasciata a Gerusalemme è una provocazione, tesa a peggiorare una situazione già esplosiva. 
L'Onu, la UE, le grandi potenze mondiali - quelle del G7 - stanno a guardare.

RIFLESSIONI NOTTURNE. IL NERVOSISMO DI MATTEO SALVINI E LA TRATTATIVA PER IL GOVERNO

La dichiarazione - stizzita e imbarazzata - di Matteo Salvini, ieri sera, all'uscita dal colloquio col Presidente della Repubblica, ben diversa da quella serena e rassicurante di Luigi Di Maio sulla formazione del governo, dimostra che Silvio Berlusconi - riabilitato e restituito pienamente alla politica - ha ripreso il controllo del Centro-destra: e Salvini, lo voglia o no, non può non tenerne conto. La sua leadership è già vanificata. 
Non escludo che il tavolo delle trattative tra Lega e M5S possa saltare nelle prossime ore, e non certo per quello che verrà fuori dai referendum nei gazebo o sulla piattaforma Rousseau subito annunciati dai due leader. Il deus ex machina della politica italiana è ancora lui, l'inossidabile Cavaliere di Arcore.

venerdì 11 maggio 2018

RIFLESSIONI NOTTURNE. IL "NIHIL OBSTAT" DEL CAVALIERE ALLA FORMAZIONE DEL GOVERNO


Non amo i gesti volgari. Ma stamattina non ne posso fare a meno. Immagino Silvio Berlusconi che, dopo aver dormito profondamente come il principe di Condò avanti la battaglia di Rocroi, s'affaccia a una finestra della sua residenza e, pensando a quanti hanno tentato di tenerlo ai margini delle vicende di questi giorni, fa istintivamente quel gesto dell'ombrello tanto caro a noi italiani.
Piaccia o non piaccia, il deus ex machina della politica italiana, nonostante Forza italiana sia uscita ridimensionata dal voto del 4 marzo, è ancora lui. Lo spiega dettagliatamente l’Espresso: «questo sta avvenendo, anzi forse è avvenuto: forse non con una trattativa diretta - più probabilmente con una negoziazione mediata dalla Lega - tuttavia il M5S sta facendo proprio quello che in questi vent'anni è stato (non a torto) imputato ai Ds e al Pd, a Massimo D'Alema e Luciano Violante: piegarsi a Silvio Berlusconi per quanto riguarda il suo gigantesco conflitto d'interessi e la salvaguardia dei suoi affari.» 

Insomma, più che cedere ai diktat di Luigi Di Maio, il Cavaliere ha costretto il ragazzo di Pomigliano a scendere a patti con lui. Sia pure per interposta persona, Matteo Salvini. Altrimenti, col cavolo lo avrebbe fatto (se si farà) il governo!

mercoledì 9 maggio 2018

RIFLESSIONI NOTTURNE. LA CRISI DEI PARTITI E IL RUOLO DEL CAPO DELLO STATO


Oggi, o forse domani, il Presidente della Repubblica conferirà l'incarico per la formazione di un governo "di servizio". Come se governare non fosse già - sempre e comunque - un servizio da rendere al paese! Solo che in questo caso sarà... "neutrale". Mi chiedo se possano esistere personaggi "neutrali" in politica: che non facciano riferimento a un'idea (per non usare la parola ideologia, obsoleta), a un ideale. A differenti modelli di sviluppo della società. A determinati "valori". Già l'essere cattolico o non cattolico, conservatore o progressista - faccio un esempio - lo rende non "neutrale"!
Quello che mi sembra certo è che l'Italia si avvia a diventare sempre più una repubblica presidenziale, in conseguenza della debolezza dei partiti, che non riescono ad esprimere leadership autorevoli, credibili, forti. Il processo di delegittimazione, che s'è avviato con Giorgio Napolitano, continua. Con l'unica differenza che, distinguendosi dal suo predecessore, Sergio Mattarella ha spiegato pubblicamente, nei dettagli, e in maniera chiara, le ragioni delle decisioni che andrà a prendere. E pensare che i tentativi di riforma della Costituzione andavano in senso opposto. Tendevano a rafforzare la figura del premier e dell'esecutivo a scapito di quella del Capo dello stato.
Quanto ai protagonisti dell'operetta che si sta recitando dal 4 marzo a oggi spiccano, secondo me, due elementi: il rispetto - faticoso, ma tenuto fermo - degli accordi elettorali di Matteo Salvini con la coalizione di appartenenza e, checché sostengano i media, la coerenza di Luigi Di Maio, pur nella inquietante incoerenza del suo pensiero (e di quello del M5S), nel non voler fare accordi con Berlusconi, a costo di mandare in frantumi il "sogno" di accomodarsi a palazzo Chigi. Salvo sorprese, in zona Cesarini, che non mi sento di escludere.
In questo scenario, per nulla esaltante, il Pd recita il ruolo avvilente della comparsa. Almeno fino a quando non si riscatterà dalla sudditanza a Matteo Renzi, confermata dalle sue due ultime apparizioni sullo schermo tv e dai messaggi lanciati ai suoi competitor all'interno del partito. Fossi Gentiloni, non starei sereno.:

sabato 5 maggio 2018

RIFLESSIONI NOTTURNE. LA CONFUSIONE DELLA POLITICA ITALIANA: MS5 E GLI ALTRI


La confusione di questa fase delicata della vita politica italiana è nel fatto che destra conservatrice e quella che impropriamente molti chiamano "sinistra" (dato che più a sinistra del Partito democratico c'è il vuoto: LeU è irrilevante) tendono sempre più a confondersi, se non proprio a integrarsi (basti guardare come simpatizzano Silvio Berlusconi e Matteo Renzi). 
La sinistra vera, quella rappresentata da Togliatti, Nenni, Terracini, Longo, Ingrao, Lombardi, Di Vittorio, per citarne alcuni, non esiste più. E neppure il post-fascismo, tenuto in piedi da Almirante (e franato penosamente dopo di lui). La Chiesa ha abdicato al ruolo - che s'era assunto nel dopoguerra con Pio XII - di formazione di una classe politica capace - nel bene e nel male - di esprimere uomini di notevole levatura (da De Gasperi a Moro, da Andreotti a De Mita, passando per Dossetti e La Pira), svolto fino agli anni settanta. 
I poteri dominanti oggi - banche, alta finanza internazionale, lobby economiche e massoniche, la stessa UE a trazione tedesca - condizionano sia la destra berlusconiana che il Pd. Nonostante i proclami antieuropeisti di Salvini: lupo che ulula alla luna.
In questo quadro già scombinato - con i limiti e le contraddizioni messi in mostra da Luigi Di Maio - il M5S si pone come l'asino in mezzo ai suoni. E - già avvenne per l'Uomo qualunque di Guglielmo Giannini -, è destinato a sciogliersi qual neve al sole se non assumerà una propria identità e non si darà un progetto serio, credibile, attuabile, sganciandosi dalla tutela imbarazzante di Beppe Grillo e della Casaleggio Associati,