mercoledì 31 maggio 2017

IN RICORDO DI ANNA MARIA GAMBINERI


Sento ora dal telegiornale la notizia della morte di Anna Maria Gambineri
La ricordo con immensa simpatia. 
Era bellissima, dolce, sensibile. Una delle "signorine buonasera" più amate della Rai negli anni sessanta e settanta, soprannominata "nuvola bionda" per la chioma vaporosa. Io la definii, in un articolo, "occhi di velluto" per lo sguardo dolcissimo, penetrante, che  ti leggeva nell'anima e ti conquistava.

Fu molto gentile con me. 
Ebbi il piacere di accompagnarla, una sera, attraverso vicoli e scalinatelle, tra gli sguardi meravigliati delle persone che incontravamo, a conoscere il volto nascosto della città.
Ad Amalfi era venuta, nel luglio del 1963, per presentare un bel Festival del Folclore, tenutosi nel piazzale del porto.

giovedì 25 maggio 2017

IERI, CORSO DI AGGIORNAMENTO PER GIORNALISTI A MINORI, CON SEGUITO: VISITA DELLA VILLA ROMANA E RAFFINATO BRUNCH DA SAL DE RISO

Ieri, mercoledì 24 maggio, corso di formazione per giornalisti a Minori. Il primo, organizzato dall'Associazione giornalisti Cava-Costa d'Amalfi, presieduta da Emiliano Amato, direttore del quotidiano online Il Vescovado che, da Ravello, fa conoscere al mondo la realtà quotidiana della Costa d'Amalfi.
 Con le stampelle, scanchianno, ci sono andato. La mia prima uscita pubblica da quando la neuropatia periferica (per periferia s'intende il piede sinistro) mi ha bloccato.
L'incontro s'è svolto nella sala consiliare del Municipio. Non affollato, per la verità, ma fa piacere che molti colleghi - donne, in particolare - siano venuti da fuori provincia. 
Foto di gruppo al bistrot di De Riso
Tema: «Geogiornalismo, tutela e valorizzazione dei territori nell'ottica della citta 'intelligente'». Un tema molto caro ad Andrea Manzi, direttore de La Città, che ha svolto un intervento di alto profilo, com'è nel suo stile. E’ da tempo che Andrea Manzi sostiene – anche in sede universItaria: a lui si deve il primo corso di geogiornalismo in Italia - la necessità di “coniugare il giornalismo generalista con la ricerca di metodologie comunicative finalizzate alla comprensione delle problematiche strutturali e contingenti di un territorio, quale presupposto per il suo sviluppo organico, e attivare processi comunicativi volti alla maturazione di una consapevolezza culturale complessiva, che coinvolga innanzitutto le comunità locali”, come sottolinea una nota pubblicata dal Vescovado
Emiliano Amato e Ottavio Lucarelli
con due gentili colleghe: Federica Bavaro e Brigitte Esposito
Interessante, e concreta, la relazione di Raffaele Ferraioli, sindaco di Furore. Profondo conoscitore dei problemi della Costiera, anche per il ruolo di presidente della Comunità Montana, che lo ha visto impegnato per molti anni, egli ha posto alcuni interrogativi: “Un giornale deve limitarsi ad informare, adeguandosi alla regola che afferma che i fatti vanno separati dalle opinioni? Oppure ha il diritto/dovere di fare cultura, costruire consapevolezze, coscientizzare?” Il giornalismo, ha osservato, “deve essere strumento di crescita culturale, di comunicazione partecipativa, di creazione della coscienza civica dei cittadini. Per cogliere tali obiettivi non può essere improntato al nozionismo, all’indottrinamento individualista, ma deve insegnare a fronteggiare difficoltà e traumi, a diffondere la virtù della resilienza”.
Cordiale accoglienza da parte del sindaco Andrea Reale. Moderatore, Vito Pinto
Padrone di casa, e ottimo organizzatore dell'evento, Emiliano Amato, nonostante sia sciancato e, anche lui, con le stampelle. Bella coppia, noi due! Alla fine, ha ricevuto molti complimenti. Meritati.
Presenti, Ottavio Lucarelli, presidente dell'Ordine dei giornalisti della Campania, e Enzo Todaro, presidente dell'Associazione giornalisti salernitani
Io , sostenuto dalle stampelle,
che parlo con Ottavio Lucarelli (di spalle)
Il corso ha avuto due... codicilli: la visita guidata della Villa Marittima Romana, in compagnia di Mario De Iuliis, dinamico presidente della Pro loco, e con la preziosa guida di Sara Ossignuolo; e un raffinato brunch da Sal De Riso, nel suo locale - pasticceria, gelateria, pizzeria, bistrot - sul lungomare di Minori. Salvatore De Riso, conosciuto in tutto il mondo per le qualità professionali e le capacità imprenditoriali, e per l'assidua partecipazione a programmi televisivi (soprattutto La prova del cuoco su Rai1) – l’ho già scritto commentando un post su Facebook - non è soltanto un maestro della pasticceria, e dell'arte della cucina, in senso assoluto. E' un maestro di stile, di gentilezza. Un maestro di ospitalità. Un campione di simpatia. Grazie!
Un grazie particolare, di cuore, a Massimiliano  responsabile della comunicazione web di Salvatore De Riso, per le belle fotografie.
Sigismondo Nastri


lunedì 22 maggio 2017

PICCOLA RIFLESSIONE SULL’AVE MARIA

Mese di maggio, mese dedicato alla Madonna.
Una riflessione sull’Ave Maria, la preghiera più diffusa, insieme al ̶ anzi ancora più diffusa, perché tutta la recita del Rosario avviene con una successione di Ave Maria ̶ , non può prescindere dalla pagina del Vangelo nella quale Luca (1, 26-38) racconta l’episodio dell’Annunciazione: «In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”. A queste parole lei rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”. Allora Maria disse all’angelo: “Come è possibile? Non conosco uomo”. Le rispose l’angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio”. Allora Maria disse: “Eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”.»
In questo nostro tempo, che vede ancora tante donne discriminate, umiliate, violentate, ammazzate, un tempo in cui la parità con l’uomo è ancora ragione di lotta, bisogna riconoscere che, nella storia della religione cattolica, la figura femminile conserva in pieno la sua dignità. Io non sono un teologo, e neppure uno studioso delle Sacre scritture.
La Madonna della Libera
a Maiori
Da credente mi chiedo: “Perché Dio, per mandare suo figlio sulla terra, a redimere l’umanità, ha scelto la via del concepimento nel grembo di una donna?”. Una risposta a questa domanda la trovo nella Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II, Lumen gentium, laddove afferma: “Volle il Padre delle misericordie che l'accettazione di colei che era predestinata a essere la Madre precedesse l'incarnazione, perché così, come la donna aveva contribuito a dare la morte, la donna contribuisse a dare la vita”. Ecco, Maria, con l’accettazione del progetto divino, fa da contraltare a Eva, progenitrice del genere umano, che tradì la fiducia del Creatore. La “Vergine madre, figlia del suo figlio” ̶ come la definisce Dante Alighieri ̶ si offre come mediatrice tra lumanità e Dio. Mediatrice del mondo sottolinea SantEfrem già nel 373 d.C. La nostra redenzione, aggiunge San Pier Damiani, non si realizza senza di lei. Ecco perché è a lei che si rivolge linvocazione: “Ora pro nobis peccatóribus, nunc et in hora mortis nostrae” (Prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte). Ricorda San Bonaventura che "nessuno può entrare in cielo, se non per mezzo di Maria”.
Passando attraverso un cancello, quello che ci introduce alla vita eterna.
© Sigismondo Nastri


martedì 16 maggio 2017

MONS. ERCOLANO MARINI, PASTORE, PADRE E MAESTRO. ALL'INDIMENTICABILE PRESULE, IL 17 GIUGNO, MATELICA INTITOLERA' LA PIAZZA ANTISTANTE LA CHIESA DEL CROCIFISSO

Il 17 giugno - scrive L'Azione, settimanale della diocesi di Fabriano-Matelica - ci sarà una grande giornata, a Matelica, dedicata a Mons. Ercolano Marini. All'indimenticato presule, che fu per trent'anni - dal 1915 al 1945 - arcivescovo di Amalfi, sarà intitolata la piazza antistante la Chiesa del Ss. Crocifisso. 
La Chiesa amalfitana, rinunciando alla possibilità di avviare la causa di beatificazione di Mons. Marini (attesa da tante persone, che a lui indirizzavano le loro preghiere - ricordo di aver visto una volta un'immaginetta al capezzale di un infermo, in ospedale -, e da me più volte invocata), ha perso un'occasione storica.
Su Mons. Marini ripropongo qui il mio saggio, già pubblicato su questo blog il 2.6.2007.

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Nella cattedrale di Sant’Andrea, in cima alla scala che conduce alla cripta, riposano le spoglie di mons. Ercolano Marini, che fu arcivescovo di Amalfi dal 1915 al 1945. I fedeli – quelli più anziani, che ebbero la fortuna di conoscerlo - si fermano dinanzi alla tomba, sovrastata da un Crocifisso, e si raccolgono in preghiera. I buoni, i santi non si possono dimenticare.
Monsignor Marini morì a Roma, nell’Istituto della Fraternità Sacerdotale, dove si era ritirato, il 16 novembre del 1950. La mattina del 19, domenica, la salma fu trasportata ad Amalfi, accompagnata dai nipoti Pietro e Remo Marini. Scortata da Carabinieri in motocicletta, giunse in città alle quattro del pomeriggio, “accolta trionfalmente, da due ali di popolo” [1].
Era nato a Matelica (Macerata) il 21 novembre 1866. Queste le tappe fondamentali del suo percorso di vita e di apostolato: studi nel seminario di Fabriano; ordinato sacerdote il 21 settembre 1899; laureato in teologia a Bologna; parroco di Tonicoli dal 27 marzo 1892; canonico della cattedrale di Matelica dal 19 agosto 1894;  priore della cattedrale di Terni dal 7 settembre 1899; vicario generale del vescovo di Spoleto dal 13 gennaio 1901; eletto vescovo titolare di Archelaide in Palestina il 29 giugno 1904; consacrato il 31 luglio successivo; trasferito a Norcia l’11 dicembre 1905. Promosso arcivescovo di Amalfi il 2 giugno 1915, vi rimase fino al 3 ottobre 1945.
Ad Amalfi giunse in un momento difficile, in piena guerra mondiale,  accompagnato dalla fama di brillante oratore e di elegante scrittore che aveva “dato alle stampe più che venti lettere pastorali, testimoni della profonda pietà sua non meno che della sua elevata coltura teologica e letteraria, mentre a Roma e Genova ed altre città della Liguria e del Veneto ne ricordano i suoi discorsi” [2]. A Norcia si era impegnato per veder ultimata, prima di lasciare quella diocesi, “la sistemazione e l’abbellimento della cripta di S. Benedetto, ove questi e la sorella S. Scolastica videro la luce nello stesso giorno e nella stessa ora” [3].
Dopo un trentennio di guida dell’arcidiocesi amalfitana, chiese a Pio XII, che lo aveva ricevuto in udienza,  di volerlo dispensare da quell’incarico gravoso in quanto, dopo tanti anni di governo delle anime, sentiva “il bisogno di solitudine e di silenzio”. Fu, il suo, un gesto anticipatore della norma introdotta da Paolo VI, che impone ai vescovi di dare le dimissioni al compimento del settantacinquesimo anno di età.
Nel commosso discorso di addio, il 30 settembre 1945, in una cattedrale gremita di popolo, tracciò il consuntivo della sua attività: “Abbracciando in una visione di volo la vita pastorale svoltasi nel lungo periodo, mi riappare in soavità rinnovata la vostra adesione alle mie iniziative e il vostro affetto devoto, che è culminato nella celebrazione solenne dei miei giubilei e del quarantesimo del mio episcopato. Ma, insieme con l’affermazione del vostro filiale attaccamento, così generale e costante, non potevano mancare e non sono mancate ansie, incomprensioni ed amarezze, in cui, logorandosi, la mia vita si è venuta consumando come sopra un altare: ad immolandum Domino veni! Sotto l’azione di forze che crocifiggono, la grazia divina mi ha spinto ad effondermi per il bene di tutti e dei singoli. È stato, quindi, giocondo per me il dispensare quanto ho avuto di risorse economiche e lo spogliarmi degli stessi oggetti preziosi, che avevano anche il valore di memorandi ricordi. E adesso nella gioia della povertà avvolgo l’umile sacrificio di me stesso, che offro al Padre celeste per il bene comune: ad immolandum Domino veni! Il sacrificio non è stato infecondo. Lo splendore assunto dalla sacra Liturgia, il rinnovamento di tanti sacri edifici, la fondazione e lo sviluppo dell’Orfanotrofio maschile e di altre Istituzioni di educazione cristiana, l’affermazione del culto della SS. Trinità con il suo Santuario in Amalfi, queste ed altre opere di carità cristiana, che oggi esistono e ieri non esistevano, hanno assunto forma e vigore dal Sacrificio di Cristo, a cui ho cercato di ispirare il mio ministero e la mia vita: ad immolandum Domino veni!”.
 La lunga permanenza ad Amalfi fu caratterizzata dai due conflitti mondiali, da gravi calamità naturali, che fecero emergere tutta la sua sensibilità, tesa “a cogliere le fasi più significative della tormentata e aspra esistenza del popolo sottoposto alla giurisdizione dell’alto officio di lui” [4]. Il 31 luglio 1919 vi inaugurò, in un edificio donatogli dalla famiglia Torre,  l’orfanotrofio, che volle dotare di una scuola di formazione professionale per ebanisti e meccanici.  Un’opera realizzata con coraggio e fede nella Provvidenza divina, “senza mezzi, senza poteri, senza validi aiuti”, che poté accogliere orfani di guerra, poi altri fanciulli e ragazzi “privi della carezza paterna o materna”.
La creazione di un orfanotrofio, “mentre la guerra aveva compiuto il suo ciclo di odio e di sangue - rilevò Matteo Incagliati, un giornalista che conosceva bene la realtà locale -, parve all’arcivescovo mons. Ercolano Marini una necessità sociale, una ispirazione del ministero divino cui l’illustre prelato confida con austera virtù e con fervida anima le sue idealità. E gli orfani di guerra della città di Amalfi furono così tratti dalla via, e raccolti in un asilo, dove signoreggia lo spirito della solidarietà umana, non la pietà, non la carità. Perché l’arcivescovo Marini con la parola e con le consuetudini del suo ministero è riuscito a far sentire come il precetto di Gesù per i fanciulli abbia tale e tanta forza di suggestione da sollevare i diritti dell’amore in un’alta sublime sfera” [5]
Mons. Ercolano Marini
Alla conclusione della guerra 1915-18, nella lettera pastorale dal titolo “Dopo la vittoria”, affrontò il problema della dignità femminile in termini molto forti. Era rimasto colpito da un album di fotografie ad uso dei turisti che ritraeva “donne portanti al collo lunghi barili e una verga in mano e sotto la scritta: “Costumi di Amalfi””. “O cari – invocò -, per il comune decoro, strappate quella pagina, che ci condanna e ci infama, mostrando ai più lontani ammiratori delle nostre naturali bellezze quanto ancora siamo indietro nelle vie luminose della civiltà”.  E aggiunse: “Pare che una condanna pesi ancora sulle donne dei nostri villaggi. Curve sotto inverosimili pesi, esse discendono alla valle per innumere multiformi scale sconnesse, per sentieri rocciosi, levigati dai quotidiani sudori di doglia, correndo per conservare l’equilibrio, e spesso cantando, quasi a mostrare che nello schiacciamento del corpo essere conservano l’anima libera a elevarsi a nobili sensi e a delicati pensieri. Ma vederle in quell’atteggiamento di spasimo, sentire il fiotto concomitante gli sbalzi della loro cadenzata discesa, commuove e genera la brama, che sorga un braccio a redimerle. Sono povere vecchiette, a cui il bianco crine non dà ancora il diritto di un pane tranquillo e di un onesto riposo; sono giovani madri, che i poppanti bambini per lunghe ore invano cercano con i sorrisi e con lacrimosi vagiti e non riànno se non defaticate e oppresse; sono soavi e innocenti fanciulle, condannate a camminare col capo verso terra, mentre dovrebbero tenerlo alto per raccogliere gli effluvi degli alberi e i baci del sole. Ignare delle conseguenze funeste, esse inconsapevolmente minano la propria esistenza. Al loro pesante lavoro deve ascriversi l’anemia così diffusa, la frequente tubercolosi, il tumore deformante, la precoce vecchiaia. Sminuite e schiacciate, non possono poi dare che una generazione debole e immiserita. Tessete la dogliosa statistica dei rachitici, degli storpi, dei mentecatti e, senza timore di errare, assegnatene la più grande parte di responsabilità al deprimente sistema, per cui la donna deve surrogare ancora la bestia da soma, dopo venti secoli di civiltà cristiana”.
 Il 26 marzo 1924 un violento nubifragio si abbatté sul versante occidentale della Costiera amalfitana, seminando lutti e rovine. Quella grave calamità ispirò la sedicesima lettera pastorale, nella quale l’arcivescovo invitò a non ritenere il disastro “un castigo. Questo concetto può perdonarsi a persone ignare del Vangelo; non a noi che ne meditiamo tanto spesso le pagine sante”. Il disastro, sosteneva mons. Marini, “è destinato ad irradiare i misteri della vita e a mettere a nudo la nostra insufficienza superba. Noi andiamo orgogliosi delle conquiste dell’ingegno umano, che è giunto a domare le cieche forze della natura e ad incanalare le sue poderose energie.  Incagliati, famoso giornalista, che abitualmente trascorreva ad Amalfi i suoi momenti di riposo, commentò: “Questo prelato ha una mente nutrita di forti studi e un’anima non insensibile alle ansie e alle speranze del popolo. La sua missione non si esercita, non si esaurisce nell’ambito della gloriosa cattedrale, ma va oltre l’altare, oltre il suo trono; e il suo spirito vaga per le vie, come a sollevare miserie, come a rinnovare pace alla gente affaticata e pensosa. È la sua un’opera che ricorda quella dei santi uomini della fede cristiana; poiché la Chiesa, auspice mons. Marini, non è più la reggia degli eletti, ma la reggia di tutti, nel nome di Dio” [6].
L’episcopato di mons. Marini fu interamente consacrato al ministero della parola ed alla generosa dedizione alla causa dei più bisognosi. L’arcivescovo dava “tutto il suo e quanto gli passava per le mani”, riferì don Antonio Turri, un religioso guanelliano che per cinque anni (1940-45) diresse il “suo” orfanotrofio. Lo confermano, del resto, due episodi, raccontati dallo stesso don Turri a mo’ d’esempio:  “Il popolo, dopo lo sbarco del settembre 1943, era come non mai non solo smarrito moralmente ma anche fisicamente provato e debilitato. Quanta pena facevano fanciulli e bambini scheletriti e affamati! Un giorno si trovò tra le “vecchie” cose della Cattedrale una preziosa croce pettorale (della sua se ne era già privato, conservandone una di semplice ottone!): avrebbe voluto alienarla per distribuire il ricavato alla povera gente, ma non vi riuscì. In un’altra occasione, poco prima di lasciare la Diocesi (settembre 1945) per la Badia di Finalpia, mi chiamò, mi mostrò alcuni pezzi di posateria d’argento, pregandomi di recarmi a Salerno per venderli. Ricordo che dovetti faticare tutta una giornata per non “svendere”. Trovai finalmente una brava persona che, capito di che si trattava, acquistò i pezzi di argento, consegnandomi, oltre al prezzo pattuito, anche una generosa offerta. Tornato ad Amalfi, consegnai il danaro all’Arcivescovo; il giorno seguente mi richiamò e mi diede un elenco di famiglie da soccorrere e la relativa somma da lasciare ad ognuna. “Ora non ho più nulla – mi disse – lascio la Diocesi povero, per vivere i miei ultimi anni, come ho sempre desiderato di vivere, povero come Gesù” [7]. E così, nel testamento spirituale, poté annotare: “Nulla possiedo; né stabili, né oggetti preziosi, né titoli di Stato, né moneta contante. Come sono grato al Signore dello stato di povertà, in cui lascio la terra!”.
Scorrendo i titoli dei libri di mons. Marini emerge che tutta la sua attività pastorale fu incentrata sul mistero del Dio Uno e Trino: Gli Splendori del Credo; La SS. Trinità nei Sacramenti della Chiesa; La SS. Trinità e la vita cristiana; La SS. Trinità e la morte cristiana; La SS. Trinità e il tempio cristiano; “Candida Rosa”. La SS. Trinità in Maria SS.ma, negli Angeli e nei Santi; S. Giuseppe nelle irradiazioni della SS. Trinità; Dal culto dell’Eucaristia al culto della SS. Trinità; Gloria Tibi, Trinitas.
Altre opere: Il Prof. Giuseppe Moscati; Profili biografici del Ven. Nunzio Sulprizio; Vita della Serva di Dio Filomena Giovanna Genovese; Facciamoci Santi; S. Adriano Martire, La Terra Santa; Nel corso degli avvenimenti.
La ricca e documentata biografia del professore Giuseppe Moscati, scritta per venire incontro al desiderio espressogli dalla sorella del “medico santo”, Anna, e dal  gesuita Padre Giovanni Aromatisi [8], fu pubblicata (fuori commercio) nel 1929, appena due anni dopo la morte dell’illustre clinico napoletano. Essa si chiudeva con l’interrogativo: “Che ne sarà del Moscati?…” a cui seguiva questa considerazione: “Io non sono in grado di sollevare il velo in cui è avvolto l’avvenire… Io amo vedere l’anima del prof. Moscati che con gli eletti scioglie il canto ineffabile a cui unisco l’umile canto dell’anima mia” [9].  Tra coloro che lessero il libro vi fu Mons. Angelo Giuseppe Roncalli, allora visitatore apostolico in Bulgaria. Congratulandosi con l’autore per aver voluto presentare a tutta la Chiesa la mirabile figura del prof. Moscati, “laico perfetto, splendido fiore di santità e di scienza”, il futuro Papa Giovanni XXIIII, in data 3 novembre 1929, aggiungeva: “Non mi farei meraviglia se se ne volesse introdurre la causa di beatificazione, nel qual caso sarei pronto a sottoscrivere la supplica”.  Giuseppe Moscati, che Giovanni Paolo II ha canonizzato il 25 ottobre 1987, fu proclamato beato da Paolo VI il 16 novembre 1975, proprio nella ricorrenza del venticinquesimo anniversario della morte di Mons. Marini. Semplice coincidenza? Papa Giovanni è diventato beato. Si sarebbe potuto avviare anche per mons. Marini lo stesso iter procedurale. Lo auspicava, nel corso di una cerimonia rievocativa, in cattedrale, il compianto onorevole Francesco Amodio, già sindaco di Amalfi: “Mentre e sepulchro adhuc clamat Gloria Tibi Trinitas, nel Cielo il Suo spirito è tuffato in eterno nei gaudi del Dio Uno e Trino. Sorgerà il giorno in cui anche monsignor Marini potrà essere annoverato tra i Santi che noi veneriamo? Noi formuliamo il voto e l’augurio”[10]. Mi sono fatto anch’io interprete di questo sentimento parlandone, più di una volta, sia con mons. Depalma, quando era alla guida dell’arcidiocesi di Amalfi-Cava, sia con l’attuale arcivescovo mons. Soricelli. So bene, però, di non avere titoli per farmi ascoltare.
Gli Splendori del Credo, edito nel 1933, ristampato nel 1938 e nel 1939, pubblicato anche nella traduzione in lingua spagnola, raccoglie le lettere pastorali scritte nel decennio 1924-1934. I relativi dogmi, trattati con grande profondità teologica, “sono presentati con un ordine logico preciso ed esposti con uno stile fluido e convincente. Nessuna pesantezza cattedratica, nemmeno il minimo smarrimento in quisquilie e secondarietà, si nota nell’importante lavoro: ma di ogni verità una nitida visione d’insieme, e poi un’analisi accurata della sostanza, una presentazione geniale. Vi alita, con il raggio della scienza, un fervore entusiasta perché la Verità non si perda nell’arida astrazione, ma si renda accessibile, sia ricevuta, amata, seguita, e possa fecondare e rendersi evidente nelle opere della pietà, dell’adorazione, dell’amore” [11]. Don Giuseppe De Luca, sull’Osservatore Romano, riconosceva a mons. Marini il merito di essersi dedicato ad opere di edificazione e di istruzione cristiana, tese a glorificare il mistero della SS. Trinità, in un tempo in cui verso di esso esisteva una certa indifferenza, dovuta ad “un fenomeno più vasto e più doloroso. Su taluni dommi e cioè sui maggiori, alcuni cristiani provano quasi un senso di disagio, quando ne debbono parlare. Sorvolano, accennano, eludono… Lo sforzo di molta, di troppa intelligenza europea durante gli ultimi due secoli – aggiungeva l’illustre teologo – si è diretto contro il mistero cristiano. Filosofia, storia, scienze naturali, scienze sociali, arti, si son ritrovate per opera di molti a congiurare dapprima e poi a marciare apertamente contro il soprannaturale… I pallidi cristiani, che dicevamo, si sono gettati a gridare, anche loro, limitandosi a professare quella parte della nostra Fede, che si fosse accordata con il rumore mondano. Quanti discorsi, più consoni al secolo che non all’eternità! Quante ansie, più proprie del nostro tempo che non della nostra anima e del nostro Dio! Quanta viltà, mascherata di zelo, nel presentare il cristianesimo come una concezione adattabile per tutti gli uomini in tutti i tempi!… Contro così pusillanime atteggiamento hanno reagito studiosi insigni, narrando la storia del domma della SS. Trinità o illustrandolo; hanno reagito anime stupende, che del domma della SS. Trinità hanno fatto la loro gioia e la loro gloria nella contemplazione” [12]. Mons. Marini era tra questi.
Come rileva don Andrea Colavolpe, nella sua biografia del venerato arcivescovo, Gli Splendori del Credo si proponeva di “offrire una ricca riflessione sulle verità professate nel Credo”. Mons. Marini “intese colmare due lacune. La prima: si predica molto spesso la dottrina morale di Gesù, molto meno i principi che l’informano, cioè il dogma, e ciò produce un profondo disagio. Perché, se nella Morale si presenta la virtù da vivere, il giogo di Cristo da portare, è necessario, anche, nel Dogma, far comprendere che quel giogo diventa “leggero”, perché lo Spirito Santo dona la grazia e l’amore nei Sacramenti. Il Marini, poi, presenta il Dogma non in una maniera arida e distaccata – questa sarebbe la seconda lacuna – ma col calore della convinzione, capace di destare l’ammirazione, lo stupore. Riporta, a proposito, nella prefazione, una pagina di un autore, il gesuita p. Plus, che vale la pena di trascrivere: “Com’è doloroso osservare che si può per sei mesi studiare il trattato della Grazia e del Verbo Incarnato senza rimanere stupiti una sola volta, commossi una sola volta, senza aver ammirato una sola volta, senza aver toccato nulla di vivo una sola volta! Non abbiamo palpato se non qualcosa di scheletrico, di scarnito, di morto. I trattati teologici sfilano uno a uno, fiori magnifici, ma fiori da erbario. Eppure la realtà che dovevano tradurre è tanto ricca, tanto viva! Quale strana facoltà di sdoppiamento nell’uomo, di potersi trovare così in contatto intellettuale, incessante con Dio, senza forse pensare un a sola volta a Dio, senza forse unirsi una sola volta a Dio!”. L’Arcivescovo si era accostato alla Teologia con animo d’asceta. Esso aveva vibrato. Ora desidera trasfondere attraverso la penna nei cuori i contenuti meditati, approfonditi nei suoi raccoglimenti per presentare, viva, una dottrina che lo incantava: Dio, Uno e Trino, Creatore, Provvidente; Gesù, il Verbo che s’incarna, che fonda il suo Regno, che fa l’uomo “nuovo”, che rimane con noi nell’Eucaristia; Maria nel piano della Redenzione; lo Spirito Santo nell’attuazione della salvezza; la Chiesa Corpo Mistico; il Sacerdozio; l’Episcopato; il Papa; la Comunione dei Santi; la Vita eterna. […] La SS. Trinità domina in ogni singola trattazione”  [13].
Nella ricorrenza del quarantesimo anniversario della morte, mons. Gioacchino Illiano, amministratore apostolico dell’Arcidiocesi di Amalfi - Cava de’ Tirreni, sottolineò l’elevata e feconda visione teologica di mons. Marini - quella, appunto, trinitaria, cui saldamente aveva ancorato la sua molteplice azione pastorale, - e il ruolo di esponente di punta del movimento liturgico in Italia (che gli ottenne, da parte dell’abate benedettino di S. Maria di Finalpia, D. Salvatore Marsili, insigne maestro di Liturgia, una menzione significativa nella Introduzione alla Liturgia, edita dalla Marietti): qualità che avevano fatto di lui “un precursore della nuova stagione ecclesiale, inaugurata dal Vaticano II con la riforma liturgica e la riscoperta della centralità del mistero trinitario nell’economia della salvezza” [14]. Peraltro, già nel maggio 1914, il primo numero della “Rivista Liturgica”, citando ampiamente la XIV lettera pastorale “La Preghiera”, pubblicata nel 1911, quando era vescovo di Norcia, gli aveva assegnato un posto d’onore nel risveglio del movimento liturgico in Italia [15].
© Sigismondo Nastri



[1] La morte di S.E. Mons. Ercolano Marini, in: Rivista Ecclesiastica Amalfitana, anno XXXVI, n. 1, gennaio-febbraio 1951.
[2] Pistone G.E., Mons. Ercolano Marini metropolita amalfitano, in: “Pro-Famiglia”, 20 giugno 1915.
[3] Ibidem.
[4] Incagliati M., Lo spirito di un sacerdote mentre Amalfi rinasce, in: “Il Giornale d’Italia”, 16 aprile 1924.
[5] Incagliati M., Un Arcivescovo, in: “Il Giornale d’Italia”, 14 settembre 1922.
[6] Incagliati M., Lo spirito di un sacerdote…, cit.
[7] Turri A., L’Arcivescovo Ercolano Marini e la sua carità, in: “A S.E. Mons. Ercolano Marini (nel XXV della morte)”, a cura della famiglia De Luca, 1975.
[8] Marranzini A., Ferrini, Moscati e Giovanni XIII tre apostoli, testimoni di santità, in: “Il Gesù Nuovo”, n. 1, gennaio-febbraio 2003.
[9] Marini E., Il Prof. Giuseppe Moscati della Regia Università di Napoli, Giannini, Napoli 1929.
[10] Amodio F., Ricordo di Monsignor Ercolano Marini, discorso pronunciato nella cattedrale di Amalfi il 16 novembre 1991.
[11] “Perfice Munus”.
[12] “Osservatore Romano”, 4 giugno 1939.
[13] Colavolpe A., Quasi aquila nell’Infinito. Ercolano Marini, l’Uomo, il Pastore, il Teologo, De Luca Editore, Salerno 2000.
[14] Illiano Mons. Gioacchino, Lettera di presentazione dell’opuscolo “O Beata Trinità! – Preghiere dettate da Mons. Ercolano Marini”, edito a cura della famiglia De Luca in occasione del 40° anniversario della morte, ottobre 1990.
[15] “Rivista Liturgica”, 1, 1914. Cfr. anche: Mons. Marini pioniere in tempo di nebbie liturgiche, in: “A. S.E. Mons. Ercolano Marini”, cit.




lunedì 15 maggio 2017

LO SGUARDO AMOROSO AIUTA A VIVERE

Mons. Beniamino Depalma, che è stato per anni nostra (cioè di noi amalfitani) illuminata guida spirituale - oggi è il suo compleanno: ancora tanti auguri, Eccellenza! -, ci offre quotidianamente, su Facebook, degli spunti di riflessione molto profondi. 
Mi approprio di quello che ha scritto stamane: «Vivere sotto lo sguardo amoroso di qualcuno, aiuta a trovare il senso dell'esistenza: "Sono amato, sono nel cuore di qualcuno, questo soltanto mi basta". Lo sguardo amoroso non giudica, non condanna anche se ti dice la verità. Senza sguardi del cuore la vita diventa un inferno anticipato. L'inferno è carenza di sguardi.» 
Mi permetto di aggiungere due citazioni: "Uno sguardo luminoso allieta il cuore" (dalla Bibbia, Libro dei Proverbi) e "Uno sguardo non amorevole sopra taluni produce maggior effetto che non farebbe uno schiaffo" (San Giovanni Bosco).
Da meditare.

domenica 14 maggio 2017

IL NAPOLETANO. UNA LINGUA ALLO SBANDO

Leggo a volte - su  manifesti, insegne, gornali, anche su libri - cose... turche spacciate per napoletano. Di questo passo la lingua di Giambattista Basile, Salvatore Di Giacomo, Raffaele Viviani, Ferdinando Russo, Libero Bovio scomparirà. 
Scrive Giuseppe Casillo nella sua opera La lingua napoletana. La storia. Le parole: "Il declino di questa lingua, è inutile ribadirlo, parte dall'Unità d'Italia, e per me è già straordinario non solo che essa abbia resistito ancora per circa un secolo, ma anche che in questo secolo abbia offerto il meglio di sé. La decadenza era inevitabile perché, quando non esiste un'entità statuale che lo tuteli e lo protegga, qualunque gruppo linguistico finisce per dissolversi".
Lo vado ribadendo io pure, da sempre. La responsabilità, a mio avviso, è delle istituzioni pubbliche, a tutti i livelli: Regione, Province, Comuni. Anche dei giornali, della tv, delle agenzie di comunicazione. Mi capita di vedere insegne di negozi, messaggi pubblicitari, citazioni che fanno inorridire. Ma, soprattutto, sottolineo, la responsabilità è delle Università della Campania che avrebbero dovuto farsene carico. Già, ma ai professori universitari - lo dico con cognizione di causa, qualcosa m'è capitato sotto gli occhi - chi glielo insegna il napoletano?

lunedì 8 maggio 2017

“UOCCHIE C’ARRAGGIUNATE” TRA REALTA’ E LEGGENDA

Ho sottomano i versi della canzone Uocchie c’arraggiunate, scritta nel 1904 da un giovane avvocato, Alfredo Falcone Fieni.
'St'uocchie ca tiene, belle, / Lucente cchiù d' 'e stelle, / Sò nire cchiù d' 'o nniro / Sò comm' a dduje suspire. / Ogne suspiro coce, / Ma tene 'o ffuoco doce / E, comme trase 'mpietto, / Nun lle dà cchiù 'arricietto. // E chi ve pò scurdà, / Uocchie c'arraggiunate, / Senza parlà, / Senza parlà? / A me guardate, sì, / E stateve 'nu poco, / Comme dich'i', / Comme vogl'i', / Comme vogl'i'! // Sò nire, cchiù sblennente / 'E ll'ebano lucente. / Comm' a 'na seta fina / Sò ll'uocchie 'e Cuncettina. // Sempe ca 'e ttengo mente, / Nce trovo sentimente / Pecché nce sta 'nu vezzo / Ca i' guardo e ll'accarezzo. // E chi ve pò scurdà, / Uocchie c'arraggiunate, / Senza parlà, / Senza parlà? / A me guardate, sì, / E stateve 'nu poco, / Comme dich'i', / Comme vogl'i', / Comme vogl'i'! // Sciure e ffronne addirose, / Nun cerco tanta ccose! / Né 'a cchiù bella guagliona, / Si è ricca, mm'appassiona. // Ma tutt' 'a simpatia, / Ma tutt' 'a vita mia / Mme giova o mm'arruvina, / Sò ll'uocchie 'e Cuncettina. // E chi ve pò scurdà, / Uocchie c'arraggiunate, / Senza parlà, / Senza parlà? / A me guardate, sì, / E stateve 'nu poco, / Comme dich'i', / Comme vogl'i', / Comme vogl'i'!
Ne La Canzone napoletana dalle origini ai nostri giorni: Storia e protagonisti, Rogiosi editore, del 2013,  Raffaele Cossentino scrive: «Nel retrobottega del Caffè Croce di Savoia, all’angolo del Teatro Augusteo, si riunivano poeti e musicisti. Non era un luogo comodo: ci si sedeva sui sacchi di riserva di caffè. Qui il nostro poeta lesse il testo di Uocchie c’arraggiunate a Rodolfo Falvo, che, appartatosi per poco tempo, annunciò agli amici di aver musicato il ritornello. Racconta Aldolfo Narciso, nel suo libro Napoli rosso e blu: “La curiosità gioiosa s’impadronì di noi tutti. In un attimo quanti erano nel caffè si alzarono e, facendo circolo ai due autori, silenziosamente attesero. Mascagnino, con la sua voce simpatica cantò: E chi ve po’ scurdà /  Uocchie c’arraggiunate / senza parlà? Applausi fragorosi scoppiarono nella sala (…). Il refrain fu ripetuto quattro cinque volte (…). Falvo e Alfredo Falconi si abbracciarono (…). La nuova canzone non poteva avere un battesimo migliore: fu affidata a Gennaro Pasquariello, che la lanciò al Concerto Eden. Fu un trionfo.»
Versi struggenti quelli di Alfredo Falcone Fieni che, con le note di Rodolfo Falvo, ci hanno consegnato una delle più appassionanti melodie del repertorio classico partenopeo. 
Trovo su internet che ne  sarebbe stata destinataria una giovane, di nome Concetta, non meglio identificata. 
Sul sito  web tarantelluccia.it leggo: «La leggenda vuole che il giovane avvocato fosse perdutamente innamorato di una bella fanciulla di nome Concetta. Un giorno Alfredo era seduto a un tavolino del ‘Caffè di notte e giorno’: chissà, forse era lì solo nella speranza di veder passare la sua Concetta. Arso dal sentimento prese allora carta e penna e scrisse, seduta stante, Uocchie c’arraggiunate». La canzone, sembra di capire, colpì diritto al cuore della ragazza, dato che i due «si sposarono e dal loro amore nacquerono ben cinque figli».
Diversa la storia che mi viene riferita dal carissimo  ingegnere Angelo Piumelli, musicologo, mandolinista e liutaio, appresa dalla mamma del suo amico Enrico Vitale, nipote di Salvatore Di Giacomo. Fonte sicura e affidabile. Gli occhi, grandi e neri, capaci di ragionare, e d’incantare senza parlare, sarebbero stati quelli di Concetta Gallozzi, cognata del sommo poeta partenopeo (moglie del fratello Gastone, che era un alto ufficiale), considerata, a quel tempo, la donna più affascinante di Napoli. Un puro e semplice omaggio alla bellezza? Niente di più, forse.
Difficile  trovare elementi per un collegamento tra le due narrazioni, completamente differenti. Chiedo aiuto a chi ne sa più di me. Ripeto: Uocchie c’arraggiunate è  capace di trasmettere a chi la ascolta una forte emozione.
La cosa sconvolgente è che l’avvocato Alfredo Falcone Fieni  – a cui si devono molte canzoni – tra queste,  Affèrrame e ‘A sfugliatella riccia, scritte insieme con Raffaello Segrè, e Capille d’angelo, musicata da Eduardo di Capua, presentate alla Piedigrotta del 1899 , canzoni che non hanno resistito al tempo, nonostante ‘A sfugliatella riccia fosse stata inclusa da Enrico Caruso nel suo repertorio, morì suicida, lanciandosi da un balcone del I Policlinico di Napoli, dove era ricoverato.

© Sigismondo Nastri

domenica 7 maggio 2017

C’È PROPRIO TUTTO NEL LIBRO DI GENNARO PANE “TRADIZIONI, STORIA, USI E COSTUMI DEL POPOLO CETARESE”

Ho in mano il volume di Gennaro Pane: Tradizioni, usi e costumi del popolo Cetarese, Edizioni Magna Graecia. Corposo, circa 450 pagine, fresco d’inchiostro.  In copertina, il panno di San Pietro, che si alza per la ricorrenza della festa patronale. Come mi capita con un libro giallo (per questo evito di leggerli) comincio a sfogliarlo partendo dalla fine. Dall’indice. La curiosità è uno dei miei tratti distintivi. 
Mi basta già questo per capire che è una summa sulla cittadina della Costiera, famosa nel mondo per la pesca dei tonni e delle alici e per la colatura, entrata a pieno titolo tra i condimenti caratterizzanti della nostra gastronomia, anche quella di chef stellati.
Andando più a fondo, trovo che c’è proprio tutto, raccontato in modo estremamente chiaro: dalla descrizione minuziosa del paesaggio alla ricostruzione storica, attenta, basata su fonti certe (senza dimenticare i fenomeni della natura che, nel corso dei secoli, hanno causato lutti e rovine); dai gemellaggi (Sète, in Francia, e Ceriale, in Liguria) ai luoghi della fede (compresi quelli scomparsi, forse anche dalla memoria collettiva), ai riti, alle tradizioni religiose; dall’economia (la pesca del tonno e delle alici, la loro lavorazione e conservazione, e l’attività agricola, con particolare attenzione alla limonicoltura) agli antichi mestieri; dai personaggi locali ai viaggiatori del Grand Tour che hanno attraversato questo territorio; dalle manifestazioni ai film che l’hanno avuto come suggestiva location; da flora e fauna (marina e terrestre) allo sport. Dalle manifestazioni tradizionali (Sagra delle acciughe e dei limoni, A tutto tonno, La notte delle lampare, Lemon day) alle attività ricettive e della ristorazione (che è attestata su livelli di assoluta eccellenza), con la descrizione delle loro tipicità.
Se avessi una qualche responsabilità amministrativa, a livello comunale, provinciale o regionale, proporrei di distribuire questo libro (come a volte si faceva con la Bibbia) a ogni famiglia cetarese, comprese quelle emigrate. Per favorire la conoscenza della gran mole di materiale – informativo,  illustrativo, documentario - che l’amico Gennaro è riuscito a raccogliere e mettere insieme, attraverso un lavoro certosino – durato parecchio, immagino –, condotto in archivi grandi e piccoli, oltre che strada per strada.
Ieri, quando Tradizioni, usi e costumi del popolo Cetarese mi è stato consegnato, l’ho affidato a mia moglie, che mi ha accompagnato al Corso di formazione per giornalisti, preoccupata della mia difficoltà deambulatoria. Ero, in quel momento, troppo preso dal tema in discussione: sicurezza alimentare, riferita in particolare all’olio extravergine d’oliva . Ho visto subito che, già scorrendone le pagine, solo per curiosità, mia moglie si appassionava alle immagini che vi erano stampate. Oggi ho fatto la stessa cosa e ho scoperto aspetti dell’ambiente e della vita del paese che, confesso, non mi erano noti.
Il sindaco di Cetara, Fortunato Della Monica, dichiara – in un breve testo di presentazione – che Gennaro Pane, con questo suo complesso lavoro, «ci permette di fare un tuffo nel passato, da dove riaffioriamo pieni di quel sapore salmastro della nostra terra, fieri di quei valori,  degli ideali che i nostri padri hanno conquistato e saputo trasmettere e che abbiamo assaporato e gustato con sublime atto di devozione. Valori, ideali, insegnamenti di vita, esempi, che dobbiamo gelosamente tenere stretti e alimentare perché essi rappresentano la somma di ricordi e di nostalgia del nostro vissuto, che sempre fa emergere l’uomo cetarese, il pescatore, libero da tutto tranne che dal mare». Come figlio della Costiera (non importa che non sono cetarese), condivido. E sottoscrivo.
Sigismondo Nastri


venerdì 5 maggio 2017

IMMAGINE DEL GIORNO: CERCO DI CAMMINARE CON LE STAMPELLE


Mi sto esercitando a camminare con le stampelle: è difficile e laborioso.
Il dolore tra polpaccio e collo del piede - i medici lo definiscono neuropatia periferica -,  intermittente, non mi dà tregua. Un dolore che faccio fatica a sopportare. Eppure, sono uno che non ama lamentarsi. 
Devo necessariamente fermarmi ogni 15/20 metri. E non riesco ad andare più lontano di 100/150 metri da casa.
Sono passato attraverso tutte le terapie possibili nella mia situazione, con risultati abbastanza relativi. Anche se l'iniziale dolore alla schiena, che mi aveva bloccato a dicembre, provocato da una maledetta ernia del disco, con l'ozonoterapia m'è passato. 
Non posso assumere antinfiammatori, controindicati rispetto ad altre patologie, e non mi sento di ricorrere ad antidolorifici a base di oppio.
Comunque non mi arrendo.


RICORDO DI SCUOLA: IL "CINQUE MAGGIO" DI ALESSANDRO MANZONI

Povero Alessandro Manzoni! Credo che una delle sue odi più famose - Il Cinque Maggio -, dedicata alla morte di Napoleone Bonaparte (di cui ricorre oggi l'anniversario), sia stata forse la più martoriata dagli studenti. Quanto meno al mio tempo.
Noi la recitavamo così: "Ei fu siccome immobile dato il mortal sospiro stette la spoglia immemore orba di tanto spiro così percossa attonita la terra al nunzio sta... ecc. ecc.", tipo filastrocca o scioglilingua, senza pause. Ignorando tutti i segni di interpunzione. Senza respirare. Trattenendo il fiato come quando fa il nuotatore sott'acqua.
Ecco invece come la trasformava qualcuno, più furbo: "Ei fu, sì come un mobile / passato a pulitura / primma c' 'a preta pòmmece / e pò c' 'a secatura...".

Ricordo che in quarta ginnasio il professore di lettere era sordo come una campana. Non se ne rendeva conto. Gli bastava osservare il movimento rapido delle labbra. Se ti fermavi, stringeva i polpastrelli della mano, in segno di insoddisfazione, e ti rimandava a posto.

PENSIERO DEL MATTINO

Cardiologo, nefrologo, diabetologo, fisiatra, ortopedico, neurochirurgo, neurologo, anestesista, ecografista, radiologo..., forse anche l'omeopata e l'agopunturista. 
C'è spazio per tutti. 
Nella lista manca l'anatomopatologo, ma la soddisfazione non l'avrà: mi faccio cremare.
5 maggio '17

giovedì 4 maggio 2017

LUIGI DI MAIO E QUALCHE SCIVOLONE SULLA GRAMMATICA


Lungi da me l'idea di difendere Luigi Di Maio (e neppure il M5S). E' vero, non ha la laurea, qualche volta è scivolato sulla grammatica. Ma non è da questi elementi che si valuta la preparazione o la capacità di una persona. Ho conosciuto nella vita fior di professionisti, con laurea, anche docenti universitari, che avevano una conoscenza abbastanza vaga del congiuntivo o dell'apostrofo. In qualche caso, dell'ortografia. Vi sono stati, in Italia, politici (della prima Repubblica) di grandissima levatura e non avevano la laurea. Abbiamo oggi al governo ministre senza laurea, magari brave. 

Contestate pure Di Maio per le idee, per quello che dice, non per il titolo di studio. Sembra che George Bernard Shaw amasse ripetere: Nulla ho imparato nella scuola, così ho evitato il rischio di credermi dotto per saper pronunciare malamente qualche parola di greco e di latino. Di Maio, dall'alto del suo scranno di vice presidente della Camera dei Deputati, potrebbe rispondere come l'imperatore Sigismondo di Lussemburgo (1368-1437). Nel suo discorso al Concilio di Costanza aveva pronunciato un sostantivo neutro come se fosse stato femminile. Al cardinale che con delicatezza gli fece presente la svista replicò stizzito: "Ego sum Rex Romanus et super grammaticam" (Sono il re di Roma e sto al di sopra della grammatica).

martedì 2 maggio 2017

IL CAOS DEL TRAFFICO AD AMALFI: CORSI E RICORSI STORICI


Ci si lamenta molto del casino del traffico ad Amalfi, particolarmente intenso in corrispondenza dei week-end. Corsi e ricorsi storici. E' sempre successo. 
Mi torna alla memoria il povero Nicola Napoli, vigile urbano, incaricato di dirigere la circolazione in piazza Flavio Gioia: sbuffava, sudava, imprecava. Pregava affinché se ne cadesse qualche ponte dalla parte di Vietri e di Sorrento.

Le foto che metto qui risalgono alla fine degli anni cinquanta, o inizio sessanta (lo deduco dal pilastro, a destra, accanto all'ingresso della pasticceria Savoia, di sostegno al palazzo Gambardella (foto 1)
Erano in corso i lavori di sistemazione del letto del torrente Canneto a cura della ditta Di Stasio. 
Per quanto riguarda la foto 2, ricordo che, mancando un vigile, all'altezza dello svincolo per piazza Municipio, un tale (di cui non mi viene il nome) tagliò un'anguria a metà, la fissò sulla lama di un coltello e si mise a dirigere la circolazione veicolare, utilizzando il rosso del frutto e il verde della buccia a mo' di semaforo.