venerdì 27 novembre 2020

IL 30 NOVEMBRE AMALFI CELEBRA LA FESTA DI SANT'ANDREA APOSTOLO, PATRONO DELLA CITTA'. VECCHI DETTI LEGATI ALLA RICORRENZA

Mancano pochi giorni alla celebrazione della festa di Sant'Andrea apostolo, protettore della città di Amalfi, segnata in calendario il 30 novembre. Considerato l’andamento climatico, nonostante sia annunciato maltempo già per domenica, è ipotizzabile che il vecchio detto non trovi applicazione: "Sant'Andrea, 'a neva 'mpoléa". Cioè (come lo interpreto io): "Sant'Andrea, la neve in grembo". Questa espressione, 'mpoléa, è tipicamente amalfitana. Non ce n'è traccia nella lingua napoletana. Cerco di perciò di far leva sui ricordi.

Ad Amalfi - è certo - 'mpoléa significava "dint' 'o mantesino": dentro il grembiule, indossato dalle donne durante i lavori domestici, dalla vita in giù, annoccato sulla schiena. Che, oltre a proteggere dalle macchie, dagli schizzi del ragù e non solo del ragù, aveva altri usi: quello di presine quando c'era da spostare una pignata dal fuoco o portare a tavola una zuppiera bollente, e di canestro per piccoli trasporti in ambito domestico: patate, uova, legno o carbone per la fornacella: bastava tener sollevato il lembo inferiore con una mano e il gioco era fatto.

Quando una mamma stava seduta, col bimbo piccolo appoggiato sulle gambe e abbracciato al seno, capitava che commentasse, compiaciuta: 'o tengo 'mpoléa, stritto stritto a me». Quante volte ho sentito, da ragazzo, tra vicine di casa: «Ngiulì', aggio cuóto 'e pummarole, ne vuò'?». «Grazie, Marietté', ma comme m' 'e porto?». «T' 'e miette 'mpoléa». E il mantesino diventava subito cesto, paniere, scodella, scegliete voi.

Trovo anche un proverbio piemontese:

-        "A sant'Andria o freido sciappa a pria",

e uno genovese:

-        "Pe sant'Andria u freidu u sciappa a pria".

Il significato è lo stesso:

-        "A/Per sant'Andrea il freddo spacca la pietra".

Legati alla festa di sant'Andrea, in calendario il 30 novembre, esistono altri detti, che mettono per lo più la ricorrenza in rapporto con le condizioni climatiche:

“A Sant'Andrea la neve è per la via”;

“Sant'Andrea porta o neve o bufera”.

E proprio perché fa freddo si pensa anche a rifocillarsi bene:

“Per Sant'Andrea, ti levi da pranzo e ti metti a cena” (con lo sguardo, ovviamente, già rivolto alle festività di fine anno):

- “Da Sant'Andrea, del maiale venticinque giorni a Natale” (gira e gira, alla fine a rimetterci è sempre il povero porco: capita a Natale, come pure a Pasqua).

© Sigismondo Nastri

 

giovedì 29 ottobre 2020

IL CORONAVIRUS E IL “MEMENTO” DELLA TV

 Memento mori è il motto dei trappisti, monaci cistercensi di stretta osservanza che, nel chiuso dei loro conventi, isolati dal mondo, dedicano le giornate alla preghiera e al lavoro, nel segno tracciato da San Benedetto da Norcia. Ed è anche il monito col quale, una volta, il sacerdote accompagnava l’aspersione di un pizzico di cenere sulla testa dei fedeli nel primo giorno di quaresima, quello che segna la fine delle baldorie carnascialesche e l’inizio dei quaranta giorni di preparazione alla Pasqua.  Poi, forse perché considerato troppo lugubre, lo si è sostituito con l’invito a convertirsi e a credere nel Vangelo.

Nella messa in latino sono/erano chiamate memento due preghiere: una, all’inizio del canone (la Commemoratio pro vivis: “Memento, Domine, famulorum famularumque tuarum”); e una dopo la consacrazione (la Commemoratio pro defunctis: “Memento, etiam, Domine, famulorum famularumque tuarum qui nos praecesserunt cum signo fidei, et dormiunt in somno pacis”).

Ora, in tempo di pandemia,  memento è diventato il tratto distintivo dei vari telegiornali: che a orari stabiliti – di giorno e di notte – ci danno, in competizione tra loro per il primato nella notizia, la somma di contagiati, asintomatici e sintomatici, ricoverati, morti a causa dell’epidemia di coronavirus. Con tutti i dettagli annessi e connessi. Rendendoci, così, la vita più complicata, più tesa. Insomma, mettènnece paura.

Per carità di patria, non ci aggiungo le esternazioni di virologi ed epidemiologi, faccendieri e sputasentenze che si fanno concorrenza sul piccolo schermo. E dicono tutto e il contrario di tutto.  Mi ricordano quello che – si racconta – facesse, nei tempi andati, il superiore del convento trappista. Passava, a intervalli regolari, davanti alle celle dei frati, bussava e recitava la formula di rito: “È passata un’altra ora della tua vita, ricordati fratello che devi morire”.

©Sigismondo Nastri

sabato 15 agosto 2020

LA DISFIDA DI CASSINO

Ricordo i tempi delle sfide tra Dc e Pci. 

Ricordo le storie di don Camillo e Peppone raccontate da Guareschi. E mi ci diverto pure. Ma questa querelle, com'è riferita dal Corriere della sera, mi lascia senza parole. Non la capisco, faccio fatica a commentarla. 

Non credo che la Madre celeste, che celebriamo col nome di Assunta, al pari di certi aspiranti cavalieri o commendatori, ci tenga alla "cittadinanza onoraria" di Cassino. E neppure che, se ciò dovesse avvenire, causerebbe il broncio a san Benedetto. 

Mi viene a mente la storia di quei due che finirono col prendersi a botte mentre litigavano su quale Madonna fosse più potente, quella del Carmine o quella di Pompei.

giovedì 23 luglio 2020

MAIORI. ADDIO A MARIA AMATO, LA "DONNA DOLCE DEI DOLCI"


E’ venuta a mancare, a Maiori, a novantuno anni, Maria Amato, la “donna dolce dei dolci”, come veniva definita. Oppure, “la signora dei sospiri”, squisitissimi, inventati da don Ciccio ‘o Spilacito, divenuti poi patrimonio della Pasticceria Trieste, la "sua" pasticceria, un piccolo laboratorio che spande il profumo delle lavorazioni, come m’è capitato di scrivere, lungo il corso Reginna, trasportato dal refolo di vento che viene giù dalla vallata di Tramonti.

Mi piace ricordarla così, come appare nella fotografia che le scattai la sera in cui festeggiò l’ottantesimo compleanno mentre si accingeva a tagliare, sorridendo, con quel sorriso che la caratterizzava,  una grande torta, che fu distribuita a fette ad amici, clienti, a chiunque si trovasse a passare di lì. Non fu solo la sua festa, fu la festa di quanti – tanti! – le volevano bene per le sue qualità professionali ed umane: la generosità, innanzitutto; il rigore che poneva nella produzione di prelibatezze quali le paste di mandorla, al gusto di pistacchio, cocco, fragola, caffè, ecc., i già citati sospiri, pastiere, Montebianco, torte farcite di profumatissima crema al limone; e poi il rifiuto assoluto di cedere alla suggestione dei semilavorati, oggi tanto di moda. Per anni, fino a quando gli acciacchi dell’età non le hanno imposto di rimanere in casa, e di cedere il testimone ai nipoti, che operano sulla sua scia, facendo tesoro dell'insegnamento ricevuto, capitava spesso di vederla impegnata a sbucciare mandorle o a preparare con cura maniacale impasti e creme. Per lei tutto doveva essere fresco, autentico, genuino, secondo tradizione. E se la sera c’erano ancora dei dolci rimasti in vetrina, li regalava. Rifiutava l’idea che potessero essere rimessi in vendita il giorno dopo.
Domani, alle ore 17.00, i funerali, nella Chiesa collegiata di Santa Maria a Mare.
Ai nipoti, in particolare al carissimo Antonio Amato, ad Anna, le più sentite condoglianze.

sabato 16 maggio 2020

UN PENSIERO PER EZIO BOSSO

Non sono intenditore di musica. Uno dei crucci che mi porto addosso è quello di non aver avuto un’educazione musicale. Ma ho l’attenuante di essere cresciuto in tempo di guerra, quando non c’erano i mezzi e neppure le opportunità per studiarla.
Questo non significa che non sia capace di apprezzare un’esecuzione, non sotto l’aspetto puramente tecnico, no, ma quello emozionale certamente sì. Ascoltando un brano posso emozionarmi, rattristarmi, commuovermi, andare in estasi, esaltarmi, agitarmi.
Leggo tanti commenti alla notizia della morte di Ezio Bosso. Non vorrei che l’amore per lui fosse legato ai problemi di salute che lo tormentavano da un po’ di anni. Che tuttavia non lo avevano mai fermato, non gli avevano mai fatto perdere il sorriso sulle labbra.
No. Bisogna tenere ben distinti l’uomo e l’artista. Il primo ha rappresentato un esempio per quanti si trovano alle prese con problemi più o meno simili ai suoi. Anzi, per tutti coloro che sono costretti a combattere una battaglia quotidiana contro il male. Senza farne oggetto di strumentalizzazione, però.
La mia preoccupazione – ed era anche la sua – è che la popolarità conquistata con l’esibizione all’Ariston durante il festival di Sanremo del 2016 potesse essere stata condizionata da un sentimento di compassione (dal latino cum-patior, partecipazione alle sofferenze altrui) per quei problemi fisici che si trascinava faticosamente, senza però mai perdere il sorriso sulle labbra. Ne dà conto Giuseppina Manin in un lungo articolo dedicato al maestro sul Corriere della sera di oggi: «Soprattutto gli dà fastidio il tipo da concerto rock che la sua presenza carismatica scatena in sala, Con lui, sollevato di peso dalla carrozzella e adagiato sul sedile del podio, la bacchetta alzata come trofeo, i sorrisi contagiosi lanciati ai suoi musicisti della Europe Philarmonic. “Il lato più doloroso è stato venir considerato da alcuni un fenomeno da baraccone” confessava amaro.»
Mi sarei aspettato anche l’intervento di un addetto ai lavori, critico musicale o musicista, sulle qualità di Bosso come compositore, pianista, direttore d’orchestra. Soprattutto come straordinario interprete di Beethoven. Il programma riproposto da Rai3 ieri sera, “Che storia è la musica”, lo ha dimostrato ampiamente anche a un profano come me.
Per comprendere la complessità del personaggio, il suo pensiero, il suo concetto di avvicinamento alla musica, bisogna leggere una vecchia intervista a l’Espresso, dell'ottobre 2019, dove egli si racconta, a partire dalle origini. E sottolinea la necessità del rigore nello studio perché «la musica è un investimento pesante, difficile… L’unica religione è la disciplina per guadagnarsi una credibilità». E insiste: la musica «è un modo sacrificale di impegno costante».

Nicola Cattò, su Musica, lo definisce «musicista completo, classicamente educato, pieno di idee e di coraggio». Dopo che la stessa rivista, già nel settembre 2017, recensendo un suo concerto beethoveniano a Trieste, non aveva esitato a proclamarlo direttore vero. «Per l’ardore che Bosso ci mette nel piacere del far musica, di stimolare la partecipazione del pubblico – scrisse nell’occasione, sulla stessa rivista, Gianni Gori -, di comunicare con l’orchestra governata con equilibrio in quel programma beethoveniano della “libertà” che accostava il grande Stupore, la Suspense della Leonora n. 3 all’esaltazione della Settima Sinfonia. Bosso ne sostiene la dialettica confermandosi un direttore “vero”, che ha salda consapevolezza formale. Della grande forma in questo senso. È invece la forma breve che prevale nelle due composizioni londinesi dello stesso Bosso: Split (Postcards from far away) e Rain, variazioni sinfoniche per pianoforte e orchestra di recente fattura e di analoga struttura. Muove, la prima, da una cellula di cinque note in un’area che sembra fondere gli echi “baltici” contemporanei a quelli italianissimi alla Rota che la fanno vorticare in una sorta di visionario ballo da Gattopardo. Muove, lo spunto postromantico della seconda, nell’ambito di un effettismo minimalista “suggestivo” a pronta comunicativa, che il pubblico ha molto gradito, acclamando l’autore/pianista e direttore.»
© Sigismondo Nastri

lunedì 20 aprile 2020

“LA STRATEGIA DELL’OMBRA” DI SERGIO ZAVOLI IN UN ATTENTO CHECK UP DI ANDREA MANZI SUL QUOTIDIANO DEL SUD

Andrea Manzi – e chi, se non lui, che gli è affine per cultura, lucidità di pensiero e sensibilità – ha dedicato sul Quotidiano del Sud (edizione Salerno, di cui è direttore) una lunga recensione all’ultima raccolta poetica di Sergio Zavoli, “La strategia dell’ombra”, edita da Mondadori quattro anni fa. Che io – lo dico subito, ad evitare malintesi – non ho ancora letto (mi propongo di acquistarlo quanto prima), e me ne dolgo assai.
Zavoli è stato, con Enzo Biagi, uno degli idoli (intendo, maestri ai quali mi volgevo con devota attenzione) fin dalla mia giovinezza. In due diversi ambiti, che mi appassionavano allo stesso modo: Zavoli per il “Processo alla tappa” del Giro d’Italia, poi per i magnifici reportage: da quello struggente “Clausura”, in radio, del 1958, a “Viaggio intorno all’uomo” a “La Notte della Repubblica”, per citarne alcuni, che, secondo me, hanno raggiunto il livello più alto nella storia del nostro giornalismo televisivo.
L’amore per Biagi, invece, risale ai tempi della sua direzione di Epoca e non s’è mai interrotto, neppure dopo il diktat berlusconiano che lo mise fuori dal palinsesto della Rai.
Sergio Zavoli l’ho pure intervistato una volta, a Positano. Conservo cara la sua dedica su “Viva l’Itaglia”. Ebbi il piacere e l’onore, una sera dell’estate 1996, di stare a tavola all’Hotel San Pietro con lui e Francesco Paolo Casavola. Ricordo ancora, con immutata emozione, quella straordinaria esperienza.

Ma torno a “La strategia dell’ombra”.
Dell’analisi che ne fa Andrea Manzi, profonda, dettagliata, complessa, accattivante, stralcio un passo che mi pare particolarmente significativo: la poesia di Zavoli – scrive il direttore - «disegna la linea di un orizzonte storico poeticamente dilatato (“è una remota idea la storia / che si affidava ai miti, come / non è reale solo il razionale…”), rassicurante riferimento per ogni lettore oscurato dall’eclisse del tempo.
Le ore ferme e infinite angosciano, nelle tragedie indossano i calzari di piombo e sembrano schiacciarci su un presente statico ineluttabile: il tempo immobile alimenta, in questo severo e godibile libro, teneri ricordi di guerra, quando la libertà baluginava nelle feritoie della speranza e il poeta, tra i cascami della tragedia immane, non scorgeva la vita (“… in quel vuoto cercavo qualcosa di rimasto / alle sue forme, si vedevano solo i campanili / a guardia del disastro…”). Erano sere amare che “si stringevano d’un tratto”, e nelle quali “l’ombra si induriva, / sembrava avere anch’essa la sua ombra”). Sono i versi dell’assenza desolante, della fine delle cose, dell’ombre inspessita e non ancora strategica; ma nella poesia di Zavoli lievita il rimedio, compare l’uscita di sicurezza che è, poi, l’entrata nella contraddizione del divenire, nella drammaticità dei conflitti dell’esistenza. “Occorrerebbe un vento / che avesse la facoltà di far salire / nell’azzurro del cosmo / un suono destinato a portare / il grazie della Terra a chi, / forse un angelo musicante, / aveva dato asl pianoforte roco, in quei mattini, / un suono così umano”. Il bivio, la sponda, l’attesa diventano partenze/soste, attraverso le quali il poeta tenta di scolorire l’ombra-guida che la vita gli affidò come bussola, sonda di giovinezza, lampada mitica.»
Sigismondo Nastri