martedì 28 febbraio 2017

A PROPOSITO DEL SUICIDIO ASSISTITO DI DJ FABO IN SVIZZERA


Il 16 gennaio 2013, a commento di un episodio di cronaca avvenuto in Belgio, dove due fratelli gemelli, quarantacinquenni, sordi dalla nascita, che stavano perdendo la vista, avevano fatto ricorso all'eutanasia, in un ospedale di Bruxelles, scrissi: «Se la vita è un dono di Dio, ed io lo credo fermamente – un gran bel dono, nonostante le difficoltà che contrassegnano il nostro cammino – va rispettata. Sempre e in ogni caso. Comprendo la sofferenza dei due gemelli di Anversa, e di tante persone colpite da disabilità, da malattia, da solitudine, tormentate nel corpo e nella psiche, ma non dimentico che il dolore fa parte della natura umana, del nostro essere. Non è un optional che possiamo accettare o rifiutare. Pur inorridito dal gesto compiuto, consentito peraltro dalla legge belga, provo compassione per quel medico che ha iniettato la sostanza mortale – spero che non l'abbia fatto per denaro -, ma vorrei conoscere se poi egli è riuscito ad andare a letto tranquillo. 
“Non uccidere” ammonisce il quinto comandamento. “Euthanatos” - “buona morte” - per me non vuol dire scegliere quando, come e dove. "Vegliate – ammonisce il Signore -, perché non sapete né il giorno né l’ora" (Mt 25,13). Vuol dire essere pronti: in sintonia col Datore della vita, in pace col prossimo e con se stessi.» 
Quattro anni dopo, il suicidio assistito in una clinica svizzera di Fabiano Antoniani, Dj Fabo, l’artista quarantenne, tetraplegico e cieco dall’estate 2014 in seguito a un incidente, non mi fa cambiare opinione, nonostante il profondo rispetto che ho di una scelta così dolorosa, così drammatica. Di scelte così dolorose, così drammatiche: perché mi torna alla mente il caso di Eluana Englaro e sento in televisione che in due anni sono almeno cento gli italiani che hanno preso la strada della Svizzera per porre fine alla loro esistenza terrena.


Io penso e agisco – credo di agire – da cattolico osservante. Ma - sottolineo, a scanso di equivoci -, non mi permetto di demonizzare chi non la pensa come me. Credo che in una società pluralista e democratica, come la nostra, nessuno possa imporre – su un tema così delicato, il testamento biologico, la regolamentazione per legge del fine vita - i propri valori etici e religiosi a chi non condivide la stessa fede. Non accetto le strumentalizzazioni ideologiche del caso, che sono già in atto, da qualunque parte esse provengano. 
Sigismondo Nastri

CUCINA PAESANA DELLA COSTA D’AMALFI: LA ZUPPA DI SOFFRITTO DI MAIALE


Quando non c’erano ancora le auto e la strada della Costa d'Amalfi veniva attraversata solo da mezzi trainati dai cavalli, esistevano alcune osterie, per lo più collocate lungo il percorso, dove i carrettieri si fermavano per l’abbeveraggio dei poveri animali, assoggettati a un lavoro faticoso, e per rifocillarsi. Tra le pietanze più richieste, specialmente in periodo invernale, c’era la zuppa di soffritto di maiale, ricca di sapore, molto calorica, decisamente piccante. Ma questo non rappresentava un problema, perché era abbondantemente “annaffiata” con un corposo vino tramontano. Piatto povero,  sicuramente in disuso, anche se dall’amico Angelo Sammarco, stamane, ho avuto la notizia che è reperibile presso un macellaio di Minori. Ci faccio un pensiero, se non per oggi, sicuramente per un altro giorno.
La zuppa di soffritto, chiamata pure “zuppa forte”, è fatta con ingredienti del maiale che, a solo nominarli, possono provocare nausea: mi riferisco a trachea, polmone e cuore (il cosiddetto “campanale”). Tagliati in piccoli pezzi, vengono innanzitutto lavati per bene, messi a scolare e poi rosolati leggermente nella sugna (sarebbe assurdo usare l’olio d’oliva in questo caso). Dopo di che vi si aggiunge conserva di peperoncini piccanti e conserva di pomodori – quella che, ai miei tempi, si faceva in tutte le case, essiccata al sole – sciolte in acqua tiepida, insieme alla immancabile foglia di lauro. 
La cottura continuerà, a fiamma bassa, tenendo presente che il sugo deve concentrarsi ma neppure tanto, in quanto il soffritto andrà servito nel piatto su tocchetti di pane raffermo. Nessuno si scandalizzi che dico che può essere utilizzato come condimento per la pasta. Bucatini, in particolare. Da leccarsi i baffi. 
© Sigismondo Nastri

lunedì 27 febbraio 2017

CUCINA PAESANA DELLA COSTA D’AMALFI: LA LASAGNA DI CARNEVALE


Carnevale, tempo di gozzoviglie. Soprattutto, tempo di lasagna. S’è aperta stamane (25 febbraio) su Fb una discussione provocata dalla domanda: “Ci vuole o no l’uovo sodo?”. Qualcuno ha risposto di no. Io, che mi ritengo un custode di quella che ho definito "Cucina paesana della Costa d’Amalfi”, quindi patrimonio del territorio, dico di sì. Premesso, ovviamente, che la lasagna, come ogni altra pietanza, ciascuno è libero di prepararla come meglio crede (de gustibus non est disputandum). Solo che, se vogliamo attenerci alla tradizione, non possiamo rinunciare a inserire, nella farcitura, le fette - tagliate a rondelle - di uovo sodo. 

Altra querelle: che tipo di lasagne? Escluderei subito quelle all’uovo e quelle cosiddette precotte: appartengono a una cultura gastronomica diversa dalla nostra. Lisce o ricce (con i bordi ondulati)? Secondo me, fa lo stesso. L’importante è che siano di grano duro e di buona qualità. Devono essere lessate molto al dente in acqua salata, nella quale va aggiunto un filo d’olio d’oliva ad evitare che si incollino tra loro. E poi disposte in bell’ordine, a strati, in una tortiera (anche quelle di alluminio monouso vanno bene) sul fondo della quale è stato già spalmato un po’ di sugo. La buona riuscita della pietanza sta proprio nel sugo, che deve essere un vero ragù, abbondante, non troppo tirato, fatto con carne di maiale (tracchiolelle, salsiccia). E, aggiungo io, quelle grosse polpette di carnevale che mi piacciono tanto (carne di vitella macinata: mollica di pane bagnata, strizzata e sbriciolata: uova sbattute, formaggio parmigiano grattugiato, uva sultanina, pinoli, aglio, prezzemolo, sale q,b.). Polpette fritte e poi calate nel sugo, da consumare come secondo piatto.
Una “signora” lasagna può essere formata anche da tre strati. La farcitura, tra uno strato e l’altro, è composta, oltre che dalla salsa, che va distribuita in modo regolare, da fettine di fior di latte o provola affumicata (si consiglia di acquistare i latticini qualche giorno prima e tenerli in frigo per averli più compatti), fette di uova sode, polpettine di carne di maiale (piccolissime, più piccole di una noce per intenderci) fritte, salsiccia sbriciolata (se è quella fresca cotta nel sugo) o disposta a fettine (se si preferisce quella stagionata), ricotta passata al setaccio o sbriciolata (a pizzichi), abbondante formaggio parmigiano grattugiato. Sull’ultimo strato, soltanto il sugo di ragù e il formaggio. Ricordo che, quando ero ragazzo, si metteva da parte, per grattugiarla all'occorrenza, la capocchia di un caciocavallo stagionato. Buonissimo.
La cottura definitiva avverrà nel forno, fino a quando la superficie non si sarà rosolata dolcemente. La ricetta, ovviamente, non è mia. E’ quella che ci è stata insegnata dalle nostre mamme e dalle nostre nonne e che viene confermata dall'Artusi della nostra gastronomia, l'indimenticato medico salernitano Achille Talarico.
© Sigismondo Nastri

CUCINA PAESANA DELLA COSTA D’AMALFI: LE CHIACCHIERE DI CARNEVALE

Parliamo di… chiacchiere, magari senza aprire bocca. Solo per masticarle delicatamente e gustarle al massimo. Non mi riferisco alle “chiacchiere e tabacchere ‘e legno ca ‘o banco ‘e Napule nun 'e ‘mpegna” ma a quelle, oltremodo squisite,  che sono la più tipica specialità dolciaria del Carnevale, conosciute con nomi diversi in tutte (o quasi) le regioni italiane. Mio suocero, che si divertiva un mondo a prepararle per tutta la famiglia, ed era in questo un maestro, le chiamava nocchette per il fatto che, realizzate le pettoline, vi faceva due incisioni parallele all’interno e intrecciava con le mani (senza stringerli) i segmenti di pasta ottenuti.
Per noi sono chiacchiere e va bene così. Altri preferiscono chiamarle bugie, frappe, ecc. Fa lo stesso. L’importante è che siano buone, leggere, delicatamente croccanti.
Ecco una ricetta con relativo dosaggio, giusto come orientamento. Ma se andate a vedere su internet vi accorgete che non sempre il rapporto tra i vari ingredienti collima. I dolci fatti in casa hanno questo di bello: ognuno li personalizza in base alla propria capacità, alla propria fantasia, alla propria esperienza. Dunque: disponete la farina (gr. 500) a fontana e mettete al centro le uova (2), il burro fuso - o magari la sugna, come si usava una volta  - (50 gr.), lo zucchero (2 cucchiai), il sale (un pizzico), un po’ di liquore (es.: Limoncello o Strega, 50 gr.) e mescolate con la forchetta partendo dal centro. Poi continuate a impastare con le mani fino a ottenere un panetto liscio, che va posto in frigo per una mezz’ora. Dopo di che, dividete l’impasto in tre o quattro parti e stendete con un matterello delle sfoglie sottilissime. L’operazione può essere facilitata utilizzando la macchina per la pasta. E’ chiaro che, in questo caso, l'impasto dovrà essere passato più volte, riducendo progressivamente lo spessore dei rulli,  fino ad impostare il livello 6.
Tirata la sfoglia, tagliatela in rettangoli della lunghezza di circa 8 cm, fateci con una rotella dentata le due incisioni di cui ho detto sopra, intrecciate i segmenti ottenuti all’interno e calate le chiacchiere nella padella con l’olio (di arachide) bollente a friggerle. Appena si saranno dorate, scolatele,  adagiatele in un piatto su carta assorbente e lasciatele raffreddare. Prima di essere servite dovranno essere spolverizzate con zucchero a velo.

© Sigismondo Nastri

CUCINA PAESANA DELLA COSTA D’AMALFI: LA GELATINA DI MAIALE


Ho desiderio di liatìna. Ovvero, di gelatina di maiale. A casa mia, quando ero ragazzo, qualche volta la si preparava in tempo di carnevale. Più frequentemente ci veniva regalata da qualche vicino – penso in questo momento alla indimenticabile Mariettella De Riso - che aveva appena ammazzato il porco. Come anche il sangue (liquido) per il sanguinaccio. Ormai se ne sta perdendo la memoria. In passato la gelatina mi capitava di acquistarla da un macellaio a Minori. In epoca più recente, l’ho trovata anche a Maiori. Non so dire che è ancora reperibile. So che molti, a leggere la ricetta, storceranno il naso. Ma vi assicuro che è buonissima.
Vediamo la preparazione. Ci provo, ma il procedimento non è che me lo ricordi bene. Spero che qualcuno corregga o integri quello che vado a scrivere. Una cosa è certa: in abbondante acqua salata, insieme a foglie di alloro, si mette a bollire la carne: orecchie, muso, piede, coda, mascariello (cioè lo spolpo della testa) del maiale, dopo averla lavata ben bene e aver rimosso i peli. Forse si aggiunge aceto o vino, non ne sono sicuro. A cottura avvenuta (vale a dire, quando si stacca dall’osso), si tira su dalla pentola e si tiene da parte. Dal brodo, sia durante la cottura, sia a raffreddamento avvenuto, si elimina accuratamente, a cucchiaiate, tutto il grasso emerso e rassodatosi in superficie. 
Si procede a disossare la carne e, dopo averla ridotta in piccoli pezzi, la si rimette nel brodo sul fuoco fino a quando il liquido non si restringe (più o meno un quarto rispetto alla quantità iniziale). Poi lo si lascia raffreddare.
Ultima operazione: con un mestolo si versa carne e brodo in appositi contenitori (di solito, quelli monouso di alluminio) e si fa solidificare in frigo, cospargendo in superficie uvetta sultanina ammollata in acqua tiepida, pinoli, grani di pepe nero, e decorando con una o due foglioline di alloro.
© Sigismondo Nastri

sabato 4 febbraio 2017

METTERE ORDINE PUO' AIUTARE A VIVERE IL TEMPO DELLA SENILITA': UNA RIFLESSIONE TRATTA DAGLI "ORIENTAMENTI PASTORALI" DI MONS. GIUSEPPE GIUDICE, VESCOVO DI NOCERA-SARNO

Il libretto con gli Orientamenti pastorali di mons. Giuseppe Giudice, vescovo di Nocera-Sarno, che ebbi il piacere di conoscere sabato 28 gennaio, in occasione del corso di formazione per giornalisti tenutosi a Nocera Inferiore, offre interessanti spunti di riflessione. Come quando sottolinea la necessità di mettere ordine nella vita, in particolare nel tempo della senilità: "con calma e serenità, senza fretta, senza paura, senza vergogna..., accogliendo, sempre con gratitudine, il tempo e lo spazio che ancora il Signore ci dona". 
È un concetto, questo, che - espresso da una fonte autorevole - consolida le mie convinzioni, mi dà forza nel cammino che porta alla meta. 
Scrive mons. Giudice: "In una cultura che spinge all'eterna giovinezza e continue prestazioni da palcoscenico, è bello nella fede accettare anche gli acciacchi e i malanni, le pause, che arrivano con il passare degli anni, sapendo - come diceva san Giovanni XXIII - che ogni giorno è buono per nascere e morire".

giovedì 2 febbraio 2017

IL GIORNO DELLA CANDELORA E UNA RIFLESSIONE SULLA META DEL NOSTRO CAMMINO

Nel giorno della Candelora, nel quale la Chiesa celebra la Presentazione di Gesù al tempio, mi piace riportare qui - dal libretto Orientamenti pastorali 2016-2017 - una riflessione di Mons. Giuseppe Giudice, vescovo di Nocera-Sarno, non riferita a questa festa, ma credo meritevole di attenzione da parte di tutti noi, che ci professiamo cattolici.
Il vescovo indica, come meta del nostro cammino, «un orizzonte non alto, ma altissimo, perfetti come il Padre (Mtt 5,48), e questo non per voler bypassare la storia, ma per ricordare ad ognuno di noi che lavoriamo per la trasfigurazione di questo mondo nell'attesa dei cieli nuovi e terra nuova (Ap 21,1). Sì, la meta è oltre, escatologica, è di là, e noi viviamo costantemente nell'attesa della Domenica senza tramonto. Non diremo più - sottolinea Mons. Giudice -: uffa, domani è lunedi! perché su quella Domenica, ottavo giorno, il sole non tramonterà e finalmente vivremo la festa eterna, non più disturbata dalle nostre fragilità e dai nostri peccati». 
Io, che per età non sono lontano dalla meta, ci credo.