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venerdì 7 settembre 2018

APPUNTI DI CUCINA POVERA. DIAVOLO D’UN PEPERONCINO NELLE PENNE ALL’ARRABBIATA

Il pepàino, così lo chiamano a Maiori. Diavolo di un peperoncino. E’ sempre più difficile trovarne piccanti. Veramente piccanti. Quando ci provo, al mercato di Torrione, a Salerno, resto quasi sempre deluso dopo aver litigato, magari, col venditore al quale mi rivolgo abitualmente. In qualche circostanza mi ha addirittura sfidato ad assaggiarlo e, visto che lo masticavo senza problemi, ha fatto la... faccia del pastore della meraviglia nel presepe. I peperoncini piccanti, quelli col fuoco dentro per intenderci, li ho avuti regalati dalla signora Marilena del Frescale, a Tramonti, e dal mio amico Gennaro, ad Agerola. Quelli, sì! Ne ho conservato i semi e li coltivo in vaso sul terrazzo di casa.
Ci sono pietanze che, senza na ponta ‘e forte, perdono il loro sapore.

Sempre a proposito di peperoncini, mi capitò di vederne, a Parigi, in una esposizione di frutta e verdura. Fui colpito dal fatto che non erano come i nostri. Avevano la stessa forma, miniaturizzata, di quelli grossi che prepariamo arrostiti o in agrodolce. Cercai di toccarli col dito, fui subito redarguito. Decisi allora di comprarne tre. Mi furono consegnati accuratamente chiusi in un sacchetto di carta con la raccomandazione di stare attento quando lo avrei aperto, perché solo a guardarli avrebbero lasciato il segno. “All’anema d’ ‘a palla”, pensai.
Tornato a casa, appena cominciai a scartocciarli, insieme con mia moglie e i miei figli, i vapori si sparsero rapidissimamente in tutta la stanza, tanto che fummo costretti a rifugiarci in terrazza. Ci ritrovammo con gli occhi gonfi, che lacrimavano, e con un insopportabile bruciore al naso. Capimmo subito che non erano adatti all’impiego in cucina: avrebbero reso il cibo immangiabile.
Quei peperoncini, m’era stato detto, provenivano dai possedimenti francesi d’oltremare.
Bando a tutto ciò che è esotico, estraneo alle nostre conoscenze, perciò. Affidiamoci al tradizionale ediavulillo paesano, a chilometro zero.
ben collaudato
Una pietanza, nella quale non se ne può fare a meno? Le penne all’arrabbiata. Ecco la ricetta. Si mette a imbiondire un trito di aglio e cipolla nell’olio evo, aggiungendovi del lardo accuratamente allacciato sul tagliere. Si lascia rosolare per qualche minuto, poi vi si uniscono il peperoncino e i pomodorini, facendo addensare la salsa a fuoco vivace. Intanto si lessano le penne che, scolate al dente, vengono unite alla salsa in una zuppiera, mescolate bene, con l’aggiunta di una ricca grattata di pecorino (da solo, o misto a parmigiano).
Il grado di piccantezza, che rende il piatto arraggiato, dipende dalla varietà, qualità e quantità del peperoncino – esiste un’apposita scala di valutazione - ma è legato anche alla percezione sensoriale, che è sempre soggettiva. L'importante è non esagerare.
© Sigismondo Nastri

giovedì 6 settembre 2018

UNA RIFLESSIONE SULLA CANNARIZIA

A conferma del declino preoccupante della lingua napoletana - e non solo quella scritta, peraltro complicata (a proposito, che orrore i testi di certe canzoni di oggi! da mettersi le mani nei capelli!), anche quella parlata, con la quale è cresciuta la mia generazione, ormai imbastardita da cattivo italiano e inglesismi vari - cito il fatto che da molte parti mi viene chiesto il significato della parola cannarizia che ha dato titolo al mio “ricettario in prosa”, edito da Areablu fuori commercio. Per la verità mi viene anche chiesto dove e come reperire il libro e questo mi mette in serio imbarazzo. Spero che, prima o poi, l’editore valuti l’opportunità di una ristampa da affidare ai circuiti di vendita. Gliene do piena facoltà.
Nella Canzone de lo Capo d’Anno, della quale curai per De Luca un'edizione in pregiata carta d'Amalfi di Amatruda, a proposito delle spese folli che caratterizzano il periodo natalizio, c’è una strofa che recita così: “la gente trase e esce, / e corre, e va e vene, / e spenne quanno tene pe’ la canna”.
La canna è la gola, il condotto attraverso il quale ingurgitiamo il cibo: detto anche, in modo dispregiativo, cannarone o cannaruozzo. L’azione dell’ingoiare è cannarià. Il goloso è 'o cannaruto.
A volte, se non riusciamo a ottenere una cosa che desideriamo fortemente, diciamo che ci è rimasta ‘ncanna. E se vogliamo mandare un’imprecazione a chi, magari – facciamo che si tratti di una leccornia -, la sta consumando avidamente in solitudine, diciamo: “puozze annuzzà’ ‘ncanna” (che tu possa soffocare). Non dovrebbe capitare mai. Il napoletano sa bene – perché gli è stato trasmesso dagli antenati - che “chi magna sulo s’affoca” (chi mangia da solo si strozza).
La cannarizi”, o cannarutizia, è la golosità, non intesa come ingordigia, ma come piacere di assaporare pietanze prelibate, dolci o salate che siano. E’ peccato? Forse sì, ma veniale, da non riferire nel confessionale. Chi ne è esente, si faccia avanti. Un antico proverbio ammonisce che “adda murì’ ‘e truono chi nun lle piace ‘o buono” (deve morire di tuono colui al quale non piace ciò che è buono).

© Sigismondo Nastri

lunedì 9 aprile 2018

LE ARANCE DI MARIETTELLA E LA MARMELLATA DELLA SIGNORA ANDREINA

Ricordo che ad Amalfi esistevano, insieme ai limoneti, degli splendidi aranceti.  Uno, lungo ‘o muro rutto, nella Valle dei Mulini. Quando ero bambino,  mio padre lo prese in fitto, per qualche tempo,  insieme alla casa, posta alla confluenza tra la salita Resinola e la via per S. Lorenzo, di proprietà di un certo Masto Ciccio. Poi quel giardino è scomparso, soffocato dal cemento.  C’erano parecchie piante d’arancio anche nella proprietà della famiglia De Riso, distrutte quando il terreno, fertilissimo, fu espropriato per costruirci un edificio scolastico: l’Istituto professionale per il commercio, dove io, per uno strano scherzo del destino, ho trascorso l’intera vita d’insegnante. Capitava che una tempesta di vento scutuliasse così forte le piante da far cadere a terra una grande quantità di arance. Mariettella (la signora De Riso, noi la chiamavamo così) ce ne regalava intere ceste. Per me, una vera manna. Ne mangiavo a bizzeffe. Ancora oggi la mia alimentazione non può prescindere, a metà mattinata, da una ricca dissetante spremuta  (anche se quelle vendute in negozio o al mercato, e provenienti non so da dove, e forse manipolate geneticamente, trattate con sostanze chimiche, non hanno il gusto e la fragranza di allora. Ma io cerco di acquistarle sempre fresche, con le foglie).
In Costiera non si producono più arance, dicevo, a parte rade piante che fanno capolino tra le pergole dei limoni. Bisogna oltrepassare il valico di Chiunzi e affacciarsi sul versante dell’Agro per ritrovarne coltivazioni più intense. Credo, ma manco sul posto da tantissimo tempo e non ne sono sicuro, che ce ne siano nel podere "Valle dei Mulini" di Gigino Aceto, che quando ero ragazzo chiamavamo 'O cuotto. Ho provato la marmellata prodotta da questa azienda tipica, insieme a  vari liquori che attengono al territorio, e la trovo eccellente.
I ragazzi di oggi sono schizzinosi: di fronte a una spremuta arricciano il naso, preferiscono bibite esotiche costruite in laboratorio. Peccato. Eppure, leggo,  gli agrumi (e se vale per le arance, vale ancor più per i nostri limoni, di cui neppure so fare a meno: meno male che ne ricevo  da Tramonti) sono ricchi di vitamina C, hanno azione antisettica, antinfiammatoria, protettiva nei confronti di cuore e arterie. Se sono arrivato, sostanzialmente sano, a ottantatré anni, lo devo anche alla grande quantità di limoni, arance, mandarini che ho inserito nella mia alimentazione. Lo faccio tuttora.
Ho qui la ricetta per una buona salutare e genuina marmellata. Me la diede, scritta di suo pugno, su carta intestata Hotel dei Cavalieri, la signora Andreina, moglie di Antonio De Luca.  La preparava per la famiglia ed era gradita dagli stessi dell’albergo.
Innanzitutto, gli ingredienti. Un chilo di arance, fresche, non trattate, lavate e asciugate. E ottocento grammi di zucchero.
Si mettono sul fuoco due pentole d’acqua e, appena bolle, si versano le arance nella prima pentola per 6/7 minuti.  Quindi, scolate, si passano nella seconda pentola per altri 5 minuti.
Si scolano di nuovo e si mettono a raffreddare, in acqua fredda. Quindi si tagliano a metà cercando - in un colino - di eliminarne i semi (se ne resta qualcuno non fa niente), senza schiacciarle troppo.  E, soprattutto, ponendo attenzione a raccogliere in una pentola il succo che  viene giù dal colino per mischiarlo allo zucchero.
Le arance, già divise a metà, vanno ulteriormente tagliate (in 4 o più pezzi), unite anch’esse allo zucchero e mescolate in modo che questo risulti un poco ammorbidito.  Dopo di che si mettono sul fuoco a fiamma bassa, per cinque minuti (dall’insorgere del bollore), mescolando spesso e fino in fondo. “Quando la scorza apparirà ben cotta – sottolineava la signora Andreina -, io le passo nel tritacarne con i fori grandi. Non bisogna impressionarsi se è un poco fluida: si indurisce raffreddandosi.” Quel che bisogna evitare è che attacchi sotto o si scurisca troppo.
Rimossa dal fuoco, la marmellata così ottenuta va invasata calda. I vasetti, chiusi ermeticamente, vanno lasciati a raffreddare, capovolti, su un canovaccio.  Una volta raffreddati, sarà necessario accertare se il sottovuoto s’è creato correttamente, premendo al centro del coperchio. I tappi di metallo (evitare il riutilizzo di quelli già usati) devono apparire leggermente incurvati verso l'interno e, premendoci sopra col dito, non si deve sentire clic clac.Se ciò avvenisse è perché  il sottovuoto non è andato a buon fine. Il prodotto ottenuto non è sicuro per la conservazione. Per sicurezza, consiglio di  affidarsi alla tradizionale bollitura dei barattoli, come si usa fare per i pelati o la salsa di pomodoro.    Saremo certi che il prodotto ottenuto potrà conservarsi a lungo.
Tutto questo vale anche per la marmellata di limoni, a parte il fatto che devono essere preventivamente privati della buccia. E che vanno bolliti interi una sola volta per 5 minuti, all’inizio del procedimento.
© Sigismondo Nastri (nuove ricette per 'A cannarizia)  

mercoledì 12 aprile 2017

LA PASTIERA, SIMBOLO DELLA PASQUA

La pastiera, dal profumo inebriante di cedro e fiori d’arancio, rigorosamente di fattura domestica, con quel tocco personale che la distingue dalle altre, è sicuramente il simbolo della Pasqua. In chiave gastronomica, intendo dire.  Sono convinto che, se ne mettiamo cinquanta in fila su un tavolo, all’assaggio non ne troviamo due uguali. Le differenze non sono tanto negli ingredienti quanto nel loro dosaggio. C’è chi la vuole intensamente profumata, chi con più o meno canditi, e così via. A parte le difficoltà che s’incontrano nella cottura in forno, che dev'essere accurata per evitare che ne esca cruda o troppo secca. Scrive Achille Talarico che la pastiera «è uno dei dolci più difficili da preparare». E aggiunge: «chi non conosce qualcuna delle innumerevoli porcherie che vengono offerte, durante le feste pasquali, sotto il nome lusinghiero di pastiera, al povero ospite che ci capita?»
Io, che non sono un gastronomo di professione, mi guardo bene dal condividere una tale affermazione. Mi limito a dire che una pastiera acquistata in pasticceria a Napoli è diversa da quella che si trova a Salerno e ancor più da quelle prodotte a Maiori, Minori, Amalfi. Sulle differenze non metto lingua. Il mio motto rimane sempre lo stesso: De gustibus non est disputandum. Ricordo solo che, quando ero ragazzo, mio padre prediligeva quella della Pasticceria Savoia. Io, per consolidata esperienza, considero una signora pastiera quella della Pasticceria Trieste di Maiori, prodotta artigianalmente nel pieno rispetto della tradizione.
Le mie considerazioni, dicevo all’inizio, vogliono riferirsi unicamente alle pastiere di fattura domestica. Una volta, quando il grano lo si comprava crudo per cuocerlo poi a casa, capitava spesso che, nel mangiarne una fetta, potevi trovarvi – come nota Talarico – acini duri a prova di dentiere. Oggi non avviene perché lo si acquista in barattolo, precotto. E lo si fa ulteriormente cuocere nel latte. Quanto alla ricetta, è addirittura stampata sull’etichetta: una buona base di lavoro, a mio avviso, sulla quale operare. A cominciare dalla pasta frolla  ̶  la si faceva con la sugna, ora col burro  ̶ , che sarà stesa fino a rivestire tutto l’interno di un ruoto per coprirlo, alla fine, con le rituali listarelle incrociate a mo’ di rombi. La farcitura è un impasto fluido, omogeneo, composto dal grano, dalla ricotta setacciata, da tante uova, pezzetti di cedro e arancia canditi, zucchero, cannella, vaniglia, acqua di fior d’arancio. Non ho citato, tra gli ingredienti, la crema pasticciera, introdotta non so quando e da chi. Certamente con l’intento di rendere la pastiera più morbida al palato. Per quanto mi riguarda, la ritengo una profanazione.
© Sigismondo Nastri (da: Cucina paesana della Costa d’Amalfi)

martedì 28 febbraio 2017

CUCINA PAESANA DELLA COSTA D’AMALFI: LA ZUPPA DI SOFFRITTO DI MAIALE


Quando non c’erano ancora le auto e la strada della Costa d'Amalfi veniva attraversata solo da mezzi trainati dai cavalli, esistevano alcune osterie, per lo più collocate lungo il percorso, dove i carrettieri si fermavano per l’abbeveraggio dei poveri animali, assoggettati a un lavoro faticoso, e per rifocillarsi. Tra le pietanze più richieste, specialmente in periodo invernale, c’era la zuppa di soffritto di maiale, ricca di sapore, molto calorica, decisamente piccante. Ma questo non rappresentava un problema, perché era abbondantemente “annaffiata” con un corposo vino tramontano. Piatto povero,  sicuramente in disuso, anche se dall’amico Angelo Sammarco, stamane, ho avuto la notizia che è reperibile presso un macellaio di Minori. Ci faccio un pensiero, se non per oggi, sicuramente per un altro giorno.
La zuppa di soffritto, chiamata pure “zuppa forte”, è fatta con ingredienti del maiale che, a solo nominarli, possono provocare nausea: mi riferisco a trachea, polmone e cuore (il cosiddetto “campanale”). Tagliati in piccoli pezzi, vengono innanzitutto lavati per bene, messi a scolare e poi rosolati leggermente nella sugna (sarebbe assurdo usare l’olio d’oliva in questo caso). Dopo di che vi si aggiunge conserva di peperoncini piccanti e conserva di pomodori – quella che, ai miei tempi, si faceva in tutte le case, essiccata al sole – sciolte in acqua tiepida, insieme alla immancabile foglia di lauro. 
La cottura continuerà, a fiamma bassa, tenendo presente che il sugo deve concentrarsi ma neppure tanto, in quanto il soffritto andrà servito nel piatto su tocchetti di pane raffermo. Nessuno si scandalizzi che dico che può essere utilizzato come condimento per la pasta. Bucatini, in particolare. Da leccarsi i baffi. 
© Sigismondo Nastri

lunedì 27 febbraio 2017

CUCINA PAESANA DELLA COSTA D’AMALFI: LA LASAGNA DI CARNEVALE


Carnevale, tempo di gozzoviglie. Soprattutto, tempo di lasagna. S’è aperta stamane (25 febbraio) su Fb una discussione provocata dalla domanda: “Ci vuole o no l’uovo sodo?”. Qualcuno ha risposto di no. Io, che mi ritengo un custode di quella che ho definito "Cucina paesana della Costa d’Amalfi”, quindi patrimonio del territorio, dico di sì. Premesso, ovviamente, che la lasagna, come ogni altra pietanza, ciascuno è libero di prepararla come meglio crede (de gustibus non est disputandum). Solo che, se vogliamo attenerci alla tradizione, non possiamo rinunciare a inserire, nella farcitura, le fette - tagliate a rondelle - di uovo sodo. 

Altra querelle: che tipo di lasagne? Escluderei subito quelle all’uovo e quelle cosiddette precotte: appartengono a una cultura gastronomica diversa dalla nostra. Lisce o ricce (con i bordi ondulati)? Secondo me, fa lo stesso. L’importante è che siano di grano duro e di buona qualità. Devono essere lessate molto al dente in acqua salata, nella quale va aggiunto un filo d’olio d’oliva ad evitare che si incollino tra loro. E poi disposte in bell’ordine, a strati, in una tortiera (anche quelle di alluminio monouso vanno bene) sul fondo della quale è stato già spalmato un po’ di sugo. La buona riuscita della pietanza sta proprio nel sugo, che deve essere un vero ragù, abbondante, non troppo tirato, fatto con carne di maiale (tracchiolelle, salsiccia). E, aggiungo io, quelle grosse polpette di carnevale che mi piacciono tanto (carne di vitella macinata: mollica di pane bagnata, strizzata e sbriciolata: uova sbattute, formaggio parmigiano grattugiato, uva sultanina, pinoli, aglio, prezzemolo, sale q,b.). Polpette fritte e poi calate nel sugo, da consumare come secondo piatto.
Una “signora” lasagna può essere formata anche da tre strati. La farcitura, tra uno strato e l’altro, è composta, oltre che dalla salsa, che va distribuita in modo regolare, da fettine di fior di latte o provola affumicata (si consiglia di acquistare i latticini qualche giorno prima e tenerli in frigo per averli più compatti), fette di uova sode, polpettine di carne di maiale (piccolissime, più piccole di una noce per intenderci) fritte, salsiccia sbriciolata (se è quella fresca cotta nel sugo) o disposta a fettine (se si preferisce quella stagionata), ricotta passata al setaccio o sbriciolata (a pizzichi), abbondante formaggio parmigiano grattugiato. Sull’ultimo strato, soltanto il sugo di ragù e il formaggio. Ricordo che, quando ero ragazzo, si metteva da parte, per grattugiarla all'occorrenza, la capocchia di un caciocavallo stagionato. Buonissimo.
La cottura definitiva avverrà nel forno, fino a quando la superficie non si sarà rosolata dolcemente. La ricetta, ovviamente, non è mia. E’ quella che ci è stata insegnata dalle nostre mamme e dalle nostre nonne e che viene confermata dall'Artusi della nostra gastronomia, l'indimenticato medico salernitano Achille Talarico.
© Sigismondo Nastri

CUCINA PAESANA DELLA COSTA D’AMALFI: LE CHIACCHIERE DI CARNEVALE

Parliamo di… chiacchiere, magari senza aprire bocca. Solo per masticarle delicatamente e gustarle al massimo. Non mi riferisco alle “chiacchiere e tabacchere ‘e legno ca ‘o banco ‘e Napule nun 'e ‘mpegna” ma a quelle, oltremodo squisite,  che sono la più tipica specialità dolciaria del Carnevale, conosciute con nomi diversi in tutte (o quasi) le regioni italiane. Mio suocero, che si divertiva un mondo a prepararle per tutta la famiglia, ed era in questo un maestro, le chiamava nocchette per il fatto che, realizzate le pettoline, vi faceva due incisioni parallele all’interno e intrecciava con le mani (senza stringerli) i segmenti di pasta ottenuti.
Per noi sono chiacchiere e va bene così. Altri preferiscono chiamarle bugie, frappe, ecc. Fa lo stesso. L’importante è che siano buone, leggere, delicatamente croccanti.
Ecco una ricetta con relativo dosaggio, giusto come orientamento. Ma se andate a vedere su internet vi accorgete che non sempre il rapporto tra i vari ingredienti collima. I dolci fatti in casa hanno questo di bello: ognuno li personalizza in base alla propria capacità, alla propria fantasia, alla propria esperienza. Dunque: disponete la farina (gr. 500) a fontana e mettete al centro le uova (2), il burro fuso - o magari la sugna, come si usava una volta  - (50 gr.), lo zucchero (2 cucchiai), il sale (un pizzico), un po’ di liquore (es.: Limoncello o Strega, 50 gr.) e mescolate con la forchetta partendo dal centro. Poi continuate a impastare con le mani fino a ottenere un panetto liscio, che va posto in frigo per una mezz’ora. Dopo di che, dividete l’impasto in tre o quattro parti e stendete con un matterello delle sfoglie sottilissime. L’operazione può essere facilitata utilizzando la macchina per la pasta. E’ chiaro che, in questo caso, l'impasto dovrà essere passato più volte, riducendo progressivamente lo spessore dei rulli,  fino ad impostare il livello 6.
Tirata la sfoglia, tagliatela in rettangoli della lunghezza di circa 8 cm, fateci con una rotella dentata le due incisioni di cui ho detto sopra, intrecciate i segmenti ottenuti all’interno e calate le chiacchiere nella padella con l’olio (di arachide) bollente a friggerle. Appena si saranno dorate, scolatele,  adagiatele in un piatto su carta assorbente e lasciatele raffreddare. Prima di essere servite dovranno essere spolverizzate con zucchero a velo.

© Sigismondo Nastri

CUCINA PAESANA DELLA COSTA D’AMALFI: LA GELATINA DI MAIALE


Ho desiderio di liatìna. Ovvero, di gelatina di maiale. A casa mia, quando ero ragazzo, qualche volta la si preparava in tempo di carnevale. Più frequentemente ci veniva regalata da qualche vicino – penso in questo momento alla indimenticabile Mariettella De Riso - che aveva appena ammazzato il porco. Come anche il sangue (liquido) per il sanguinaccio. Ormai se ne sta perdendo la memoria. In passato la gelatina mi capitava di acquistarla da un macellaio a Minori. In epoca più recente, l’ho trovata anche a Maiori. Non so dire che è ancora reperibile. So che molti, a leggere la ricetta, storceranno il naso. Ma vi assicuro che è buonissima.
Vediamo la preparazione. Ci provo, ma il procedimento non è che me lo ricordi bene. Spero che qualcuno corregga o integri quello che vado a scrivere. Una cosa è certa: in abbondante acqua salata, insieme a foglie di alloro, si mette a bollire la carne: orecchie, muso, piede, coda, mascariello (cioè lo spolpo della testa) del maiale, dopo averla lavata ben bene e aver rimosso i peli. Forse si aggiunge aceto o vino, non ne sono sicuro. A cottura avvenuta (vale a dire, quando si stacca dall’osso), si tira su dalla pentola e si tiene da parte. Dal brodo, sia durante la cottura, sia a raffreddamento avvenuto, si elimina accuratamente, a cucchiaiate, tutto il grasso emerso e rassodatosi in superficie. 
Si procede a disossare la carne e, dopo averla ridotta in piccoli pezzi, la si rimette nel brodo sul fuoco fino a quando il liquido non si restringe (più o meno un quarto rispetto alla quantità iniziale). Poi lo si lascia raffreddare.
Ultima operazione: con un mestolo si versa carne e brodo in appositi contenitori (di solito, quelli monouso di alluminio) e si fa solidificare in frigo, cospargendo in superficie uvetta sultanina ammollata in acqua tiepida, pinoli, grani di pepe nero, e decorando con una o due foglioline di alloro.
© Sigismondo Nastri

sabato 22 ottobre 2016

CUCINA PAESANA DELLA COSTA D'AMALFI: 'A SCAROLA 'MBUTTUNATA


Non conosco Giuliano Donatantonio (da poco, amico su Facebook), o forse lo conosco – essendo lui di Minori – e non me ne ricordo. E non conosco neppure la sua cucina, se non attraverso le fotografie che regolarmente pubblica, con le relative annotazioni.
Tutto ciò che attiene alla gastronomia "nostrana" mi ha sempre interessato. Per anni ho raccolto da anziane signore, nei vari paesi della costiera, ricette "caserecce". Alcune le ho pubblicate su questo blog.
Non conosco, dicevo, la cucina di Donatantonio, chef del ristorante Pineta 1903 a Maiori, anche perché alla mia età devo stare attento a quello che mangio e le pietanze, si sa, più sono buone più creano problemi alla salute di un ottuagenario. Pazienza!
Conseguentemente, evito di andare per ristoranti. 
Mi basta però la frase “io amo il mio lavoro”, con la quale egli conclude ogni suo post, per darmi la garanzia di una elevata professionalità. "L'unico modo di fare un ottimo lavoro - cito Steve Jobs - è amare quello che fai".
Oggi Donatantonio ha accennato alla scarola ‘mbuttunata (imbottita) -, che era uno dei punti fermi della nostra tradizione culinaria, più contadina che marinara. Ad Amalfi si diceva: scarola fràceta, perché veniva messa a macerare, ripulendola poi delle foglie esterne “marcite” prima di lavarla ben bene, imbottirla (come? lo ha scritto già Donatantonio: acciughe, uva passa, pinoli, aglio, olive e pecorino. Una volta, se non ricordo male, anche capperi e pane raffermo,"spugnato" e sbriciolato) e metterla a cuocere in tegame con olio abbondante fino a farla leggermente "arrosolare" da ogni lato. Questo trattamento la rendeva tenera e saporita. Gaetano Afeltra alla scarola fràceta ‘mbuttunata ha dedicato uno splendido racconto. Riportarla agli onori del menu è una cosa della quale va dato merito allo chef. Come gli va dato merito dell’impiego, nelle sue preparazioni, di prodotti tipici del territorio: l’omologazione di gusti e sapori è uno dei mali del nostro tempo.


© Sigismondo Nastri

giovedì 10 marzo 2016

LA CUCINA DI PASQUA

Nell’avvicinarsi della Pasqua, ripropongo questo scritto già pubblicato il 26 marzo 2013

Pasqua ha rappresentato sempre un grande appuntamento conviviale. Tanto più che s’usava benedire la mensa. Avviene ancora in molte case. Ci si reca in chiesa, la mattina, a prelevare l’acqua santa. E con questa,  intingendovi un rametto d’ulivo, dopo un momento di preghiera, il capo famiglia, all’inizio del pranzo, asperge la tavola imbandita e gli stessi commensali. Lo faceva mio padre, cerco di tener viva la tradizione.
Per la scampagnata – che ora si chiama picnic - c’è la Pasquetta (’o pascone), il giorno dopo, ed è quasi una riconquista della libertà.  Ci si portava dietro, ai miei tempi, una grossa fetta di gattò di patate, farcito con salame, formaggio, mozzarella, o una frittata di maccheroni.
Con una esplosione di profumi e sapori, Pasqua segna la conclusione della quaresima, iniziata all’indomani dell’ultimo martedì grasso: un periodo di preparazione durato quaranta giorni (quarantaquattro, con le domeniche) caratterizzato da penitenza e digiuno, che cessa con la resurrezione di Gesù.  E siccome coincide col periodo in cui si ammazzano i maiali, ecco che nel menu la carne suina la fa da padrona. Sotto forma di fellata  (sopressate e capicolli), che si abbina al casatiello (tortano di pane con sugna e cicoli, decorato con uova intere, cotte anch’esse in forno), alla ricotta salata ’e Montella (si fa per dire, ora la producono in Sardegna) da gustare insieme alle fave fresche, primizia di stagione. Poi c’è la menesta maretata, che a Napoli, in epoca borbonica, chiamavano anche menesta cu no palmo 'e grasso: un trionfo di verdure, calate in un brodo nel quale si son messe a cuocere parti meno nobili del maiale, ma dal sapore intenso: insaccati - pezzente, annoglie -,  cartilagini e ossi tenuti in salamoia.
Questo, senza rinunciare al primo piatto – maccheroni al forno o  conditi con ragù di carne (col ragù si sposano a meraviglia i ricci furetani) – e al capretto (in costiera preferito all’agnello) contornato da patatine novelle. A proposito: le statistiche ci dicono che ogni anno due milioni di agnelli vengono uccisi, nel periodo pasquale, per finire sulle tavole degli italiani. Mi associo a quanti chiedono che venga fermato questo massacro. Prometto che sarò il primo a rinunciarvi. 
Dulcis in fundo, i dolci: il casatiello dolce, sormontato dalla pecorella di zucchero o marzapane, e soprattutto  la pastiera, dal profumo inebriante di cedro e fiori d’arancio. Rigorosamente di fattura domestica, con quel tocco personale che la distingue dalle altre.

Una grande abbuffata? No, semplicemente il trionfo del gusto e dello stare insieme perché – recita un antico detto, e vale specialmente per i giorni di festa – “chi magna sulo s’affoca”.
© Sigismondo Nastri

domenica 10 agosto 2014

FERRAGOSTO A MAIORI: E’ TEMPO DI MELANZANA COL CIOCCOLATO

Sono certo che in tutte le case dei maioresi, e anche in parecchie case di villeggianti, si è già all’opera per preparare la melanzana col cioccolato, legata alla festa patronale del 15 agosto. Dico subito che non penso che sia stata ‘inventata’ qui, anche se è profondamente radicata nella tradizione e nella cultura gastronomica di questo paese. E’ risaputo che a Napoli, sotto la dinastia dei Borbone, veniva offerta ai reali, a metà agosto, in occasione della “festa della ‘nzegna”, celebrata al quartiere Santa Lucia, una “mulignana c’ ‘o ddoce” non proprio uguale alla nostra. Ritengo probabile che vi sia stata introdotta da un cuoco proveniente da Maiori, dove sicuramente questa leccornia ha origini più lontane. Che questa bacca carnosa, della famiglia delle solanacee, originaria dell’India, si coltivasse in Costiera, e venisse preparata in molti modi (alla parmigiana, fritta, arrostita, a funghetti, a barchetta, ecc.), è cosa assodata. Già nel Seicento, Jean-Jacques Bouchard, un viaggiatore francese, giunto a Minori, ebbe modo di gustare “molignane farcite di carne, formaggio, pasta, spezie: un frutto a forma di giovani zucche – così lo descrisse –, ma di colore rosso brunito… poco stimato et a Roma solo li Giudei lo mangiano”.
La melanzana col cioccolato della Pasticceria Trieste di Maiori   
Per quanto riguarda le modalità di preparazione della melanzana col cioccolato suggerisco questa ricetta, che già pubblicai qualche anno fa in questo mio spazio:
Ingredienti: Melanzane, diritte, affusolate, non troppo grosse di diametro, di una qualità (le cosiddette “napoletane”) che non abbia all’interno molti semi. Olio extravergine d’oliva (o, preferibilmente, almeno in questo caso, olio di arachide, che non lascia traccia all’olfatto e al gusto). Uova, farina, un pizzico di sale (da aggiungere all’uovo battuto). Cacao amaro, zucchero, cioccolato fondente, liquore Concerto (molto aromatico, originario di Tramonti, di produzione per lo più domestica, comunque reperibile in commercio, prodotto da piccoli liquorifici locali), oppure Strega, canditi di arancia e cedro, pinoli, mandorle tritate, confettini (cosiddetti “diavolilli”), amaretti. Sbucciare le melanzane, dopo averle lavate, e tagliarle a fette larghe, non troppo sottili, ma neppure troppo spesse (come si usa per la parmigiana). Friggerle una prima volta senza troppo arrosolarle. Adagiarle, quindi, su carta assorbente, avendo cura poi di capovolgerle, sostituendo il foglio di carta, in modo che venga assorbito quanto più olio è possibile           
Una volta che si sono raffreddate, passarle nella farina (rimuovendo quella in eccesso), nell’uovo sbattuto (al quale va aggiunto un pizzico di sale) e rifriggerle. Ripetere l’operazione di asciugatura con la carta assorbente e metterle a raffreddare.
A parte, preparare una salsa di cioccolato con cacao amaro, zucchero, cioccolato fondente, un po’ d’acqua (q.b.), una spruzzata di liquore. Proporzionare i vari elementi secondo i propri gusti.
Le fette di melanzane (ripeto: ben private dell’olio di frittura in eccesso) vengono prima immerse ad una ad una nella salsa di cioccolato (che dev’essere di una certa consistenza, né troppo liquida né troppo densa), quindi disposte a strati in un piatto da portata.
Sopra ogni strato si cospargono canditi, tagliati a dadini minuscoli, pinoli, mandorle triturate (dopo averle spellate e asciugate in forno), confettini (diavolilli), amaretti sminuzzati e scaglie sottili di cioccolato fondente.
Far rapprendere in frigo e servire.
Una finezza: comporre  la melanzana col cioccolato - anziché a strati singoli -, inserendo la farcia dolce tra due fette, secondo la più autentica tradizione.
La melanzana al cioccolato, con farcia dolce tra due fette, della signora Rina Dell'Isola
 A chi non ha voglia di affrontare l’impresa, che non è tanto semplice e richiede tempo e pazienza, consiglio di rivolgersi alla Pasticceria Trieste di Maiori che la produce – credo su ordinazione – come meglio non si potrebbe.
© ricetta tratta da: Sigismondo Nastri, "Cucina paesana della Costa d'Amalfi"