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sabato 16 maggio 2020

UN PENSIERO PER EZIO BOSSO

Non sono intenditore di musica. Uno dei crucci che mi porto addosso è quello di non aver avuto un’educazione musicale. Ma ho l’attenuante di essere cresciuto in tempo di guerra, quando non c’erano i mezzi e neppure le opportunità per studiarla.
Questo non significa che non sia capace di apprezzare un’esecuzione, non sotto l’aspetto puramente tecnico, no, ma quello emozionale certamente sì. Ascoltando un brano posso emozionarmi, rattristarmi, commuovermi, andare in estasi, esaltarmi, agitarmi.
Leggo tanti commenti alla notizia della morte di Ezio Bosso. Non vorrei che l’amore per lui fosse legato ai problemi di salute che lo tormentavano da un po’ di anni. Che tuttavia non lo avevano mai fermato, non gli avevano mai fatto perdere il sorriso sulle labbra.
No. Bisogna tenere ben distinti l’uomo e l’artista. Il primo ha rappresentato un esempio per quanti si trovano alle prese con problemi più o meno simili ai suoi. Anzi, per tutti coloro che sono costretti a combattere una battaglia quotidiana contro il male. Senza farne oggetto di strumentalizzazione, però.
La mia preoccupazione – ed era anche la sua – è che la popolarità conquistata con l’esibizione all’Ariston durante il festival di Sanremo del 2016 potesse essere stata condizionata da un sentimento di compassione (dal latino cum-patior, partecipazione alle sofferenze altrui) per quei problemi fisici che si trascinava faticosamente, senza però mai perdere il sorriso sulle labbra. Ne dà conto Giuseppina Manin in un lungo articolo dedicato al maestro sul Corriere della sera di oggi: «Soprattutto gli dà fastidio il tipo da concerto rock che la sua presenza carismatica scatena in sala, Con lui, sollevato di peso dalla carrozzella e adagiato sul sedile del podio, la bacchetta alzata come trofeo, i sorrisi contagiosi lanciati ai suoi musicisti della Europe Philarmonic. “Il lato più doloroso è stato venir considerato da alcuni un fenomeno da baraccone” confessava amaro.»
Mi sarei aspettato anche l’intervento di un addetto ai lavori, critico musicale o musicista, sulle qualità di Bosso come compositore, pianista, direttore d’orchestra. Soprattutto come straordinario interprete di Beethoven. Il programma riproposto da Rai3 ieri sera, “Che storia è la musica”, lo ha dimostrato ampiamente anche a un profano come me.
Per comprendere la complessità del personaggio, il suo pensiero, il suo concetto di avvicinamento alla musica, bisogna leggere una vecchia intervista a l’Espresso, dell'ottobre 2019, dove egli si racconta, a partire dalle origini. E sottolinea la necessità del rigore nello studio perché «la musica è un investimento pesante, difficile… L’unica religione è la disciplina per guadagnarsi una credibilità». E insiste: la musica «è un modo sacrificale di impegno costante».

Nicola Cattò, su Musica, lo definisce «musicista completo, classicamente educato, pieno di idee e di coraggio». Dopo che la stessa rivista, già nel settembre 2017, recensendo un suo concerto beethoveniano a Trieste, non aveva esitato a proclamarlo direttore vero. «Per l’ardore che Bosso ci mette nel piacere del far musica, di stimolare la partecipazione del pubblico – scrisse nell’occasione, sulla stessa rivista, Gianni Gori -, di comunicare con l’orchestra governata con equilibrio in quel programma beethoveniano della “libertà” che accostava il grande Stupore, la Suspense della Leonora n. 3 all’esaltazione della Settima Sinfonia. Bosso ne sostiene la dialettica confermandosi un direttore “vero”, che ha salda consapevolezza formale. Della grande forma in questo senso. È invece la forma breve che prevale nelle due composizioni londinesi dello stesso Bosso: Split (Postcards from far away) e Rain, variazioni sinfoniche per pianoforte e orchestra di recente fattura e di analoga struttura. Muove, la prima, da una cellula di cinque note in un’area che sembra fondere gli echi “baltici” contemporanei a quelli italianissimi alla Rota che la fanno vorticare in una sorta di visionario ballo da Gattopardo. Muove, lo spunto postromantico della seconda, nell’ambito di un effettismo minimalista “suggestivo” a pronta comunicativa, che il pubblico ha molto gradito, acclamando l’autore/pianista e direttore.»
© Sigismondo Nastri

venerdì 7 settembre 2018

UN RICORDO DI CLEMENTE TAFURI

Rovistando tra le mie carte, un po' per rimetterle in ordine (cosa alquanto improbabile), un po' per deciderne la futura collocazione (un problema che, a 83 anni, mi assilla parecchio), ho ritrovato questo libro che ebbi regalato, nell'estate del 1952, con una sua dedica (a Sisgimondo, così mi chiamava), da Clemente Tafuri. È una monografia dell'artista - "Clemente da Salerno, poeta del colore" - scritta da Settimio Mobilio, che non era solo un grande avvocato, anche un profondo conoscitore d'arte.
Tafuri - osserva Mobilio - è nato, si è educato nel nostro secolo [il XX] ed ha seguito la sua via, cioè gli impulsi del suo temperamento, senza badare a scuole che egli non ha conosciuto. E aggiunge: "In arte pura non vi sono scuole, perché l'arte è manifestazione spontanea della persona, è attività di pensiero e di sentimento che trae dall'io le sorgenti delle sue espressioni". Credo che il giudizio sia perfettamente attinente al personaggio, che amava ripetere, compiacendosene: "Io seguo me stesso", cioè il suo impulso, i suoi stati d'animo.
Nato a Salerno il 18 agosto 1903, deceduto a Genova l'11 dicembre 1971, Clemente Tafuri può essere considerato l'ultimo rappresentante di una pittura tardottocentesca che a Napoli aveva come protagonisti Michele Cammarano, Vincenzo Irolli, Antonio Mancini. Una pittura che resisteva ai nuovi movimenti che si facevano strada in Europa e in Italia. Eppure, quando espose a Parigi nel 1951, nella galleria Bernheim-jeune al numero 83 di rue Faubourg Saint-Honoré, il critico Pierre Andrien - sulla rivista Le point de d'art - sottolineò che nei suoi dipinti non c'era nessun bluff, nessun pugno nello stomaco, ma soltanto una bellezza sfolgorante.
Io lo conobbi e lo frequentai nei primi anni cinquanta .- ero già corrispondente di giornali - quando aveva preso in fitto la pensione Belvedere a Conca dei Marini per dedicarsi - credo di ricordare - al ritratto di Salvo D'Acquisto commissionatogli dall'Arma dei Carabinieri. Aveva a disposizione due militari che gli facevano da scorta, oltre che da modello. Una sera venne alla torre dell'albergo Luna dove, sulla terrazza proiettata arditamente sul mare, si poteva ascoltare una musica dolce e appassionata. Apparve imponente, spavaldo, come un moschettiere uscito dalle pagine di Alessandro Dumas. Spavaldo anche nell'incontro con i pittori piemontesi che in quel periodo tenevano il loro raduno in Costiera, su invito dell'Ente provinciale per il turismo. E, se la memoria non mi tradisce, tra questi c'erano artisti che si chiamavano Francesco Menzio, Italo Cremona, Luigi Spazzapan.
Tafuri è un pittore ormai dimenticato da Salerno, che pure gli intitolò, sull'onda emotiva provocata dalla sua scomparsa, un bel pezzo di lungomare. Con l'eccezione del bel calendario 2018 dell'Azienda grafica e cartaria De Luca, curato da Marco Alfano, presentato il 28 dicembre dell'anno scorso a Palazzo di Città.
A quando una mostra rievocativa? Segnalo qui che, fra tre anni, ricorrerà il cinquantesimo anniversario della morte.
Sigismondo Nastri

mercoledì 15 agosto 2018

IL 3 OTTOBRE RICORRERA’ IL 60° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI CESARE GIULIO VIOLA. IL COMUNE DI POSITANO FACCIA QUALCOSA PER RICORDARLO


Non amo la sdraio. Ne ho due, non mi ci siedo mai. Non amo la sdraio da quando a Positano ne rimase vittima, sul terrazzo di casa, il commediografo Cesare Giulio Viola. Avvenne il 3 ottobre 1958. Il telo sul quale s’era adagiato per godersi la vista del mare all’improvviso si squarciò.  Batté la testa e gli fu fatale. Viola, nato a Taranto il 26 novembre 1886, s’era affermato come scrittore, commediografo e sceneggiatore di teatro, televisione e cinema. Per la sceneggiatura vantava anche una candidatura all’Oscar.
M’interessai a lui per due lavori: “Canadà” (tre atti, Mondadori, 1950) e, in modo particolare,  “Nora seconda” (tre atti, prefazione di Eligio Possenti, Bologna 1956) che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto dare un seguito all’interrogativo col quale s’era chiuso il dramma ibseniano “Casa di bambola”. Non mi piacque. Non c’era nulla del pathos dell’autore nordico.
In “Canadà” mi sorprese il riferimento alla Grotta dello smeraldo. Trascrivo qui il breve dialogo tra i protagonisti della commedia, Joe e Olga:
«OLGA. E perché dici queste cose? (fissandolo) Dimmi che mi vuoi bene… Mi fa piacere sentirmelo dire…
JOE. Ti voglio bene…
OLGA. Non così… Come quella sera, ti ricordi, a Roma… Come quel giorno ad Amalfi, nella grotta dello Smeraldo… Io voglio tornare ad Amalfi e voglio comprarmi quella grotta, e voglio murarla perché nessuno c’entri più… Dimmi che mi vuoi bene come allora… È vero, Joe?».
Tra meno di due mesi, il 3 ottobre, ricorrerà il sessantesimo anniversario della morte di Viola. Sarebbe il caso che il Comune di Positano si facesse promotore di una cerimonia – meglio, un incontro di studio -, per richiamare l’attenzione degli studiosi sulla sua opera, soprattutto per ricordare quanto egli amasse il paese della Costiera.
© Sigismondo Nastri

lunedì 23 luglio 2018

RIFLESSIONI NOTTURNE. LA FIAT, GLI AGNELLI, VITTORIO VALLETTA E SERGIO MARCHIONNE


Io non amo la Fiat, da quando nel 1998 provai ad acquistare la Brava (o Bravo, non ricordo bene). Andai da parecchi concessionari a Salerno e in provincia (uno mi era pure amico): stesso modello, stesso colore, stessi accessori. Niente omogeneità di prezzo. Una differenza non di spiccioli. Rimasi perplesso. Optai per una macchina giapponese: i punti vendita erano pochi, allargai il giro fino a Caserta trovando prezzi perfettamente uguali, peraltro non superiori alla Brava. Scelsi la vettura nipponica, non mi ha mai lasciato a terra e dopo vent'anni fa ancora bella figura.
Non amo la Fiat, ripeto, e conseguentemente la squadra di calcio che la rappresenta.
Il mio incontro con Susanna Agnelli, nel 1996, a Ravello
Eppure ho avuto grande ammirazione per Gianni Agnelli, che ha rappresentato l'Italia a livelli altissimi nell'impresa, nella politica, nella mondanità e nella moda (oltretutto era un amante della Costa d'Amalfi, con casa a Conca dei Marini), ho avuto modo di conoscere Susanna Agnelli, persona squisitissima, quando era ministro degli Esteri. Con la stessa ammirazione ho seguito l'ascesa ai vertici del colosso automobilistico di Sergio Marchionne, self-made man, assurto al ruolo di grande manager, come lo era stato nell'immediato dopoguerra Vittorio Valletta. Solo che Marchionne - da vero abruzzese - ha avuto un carattere più schietto, leale (altro che i "torinesi falsi e cortesi" del famoso proverbio), diventando antipatico a molti: quando gli è parso necessario ha dato bastonate a governi, istituzioni, sindacati. Ai lavoratori. Ha tirato fuori la Fiat dalla Confindustria
Ha condotto operazioni di immensa portata, evitando il fallimento sia dell'azienda torinese sia dell'americana Chrysler. La storia dell'economia italiana e mondiale gliene darà merito.
Trovo un elemento di somiglianza (pur avendo essi fisionomie e stazza differenti - uno, gracile e minuto, l'altro prestante e robusto) tra Valletta e Marchionne. Entrambi, personaggi schivi, estranei alla deriva mondana: il primo si muoveva a Torino, negli anni del dopoguerra, alla guida di una 500; l'altro ha conservato la sua immagine, destinata a diventare iconica, con l'abituale maglioncino blu. Non rinunciandovi neppure quando andava alla Casa Bianca o al Quirinale.
Si sentiva un uomo solo perché "chi comanda è solo". Altri dicono che è stato "lo Steve jobs dell"auto". Le due definizioni si saldano.
© Sigismondo Nastri

giovedì 31 maggio 2018

MEMORIE SALERNITANE. RICORDO DI MARIA VEDETTI, "OSCURA BENEFATTRICE"

Il caso mi ha messo tra le mani una copia del Mattino, datata 8 febbraio 1951. Sfogliandola, sono attratto da un articolo, nella pagina di Salerno, su Maria Vedetti, definita nel titolo "oscura benefattrice". La "popolana", morta a causa di un tumore sei giorni prima, a 52 anni, era conosciuta quale venditrice di "spassatiempe" e altre leccornie.

"La si vedeva ogni mattina col bello e cattivo tempo nei pressi dell'edificio delle scuola 'Gennaro Barra' e in villa comunale, circondata da tanti scolaretti, ai quali vendeva la sua modesta mercanzia: caramelle, confetti, quaderni e penne". 
Mia moglie, che all'epoca era una ragazzina, e frequentava le elementari, mi dice che Maria arrivava la mattina, prima che suonasse la campanella di entrata, vestita abitualmente di nero, portandosi dietro, su uno sgangherato carrettino, un seggiolino, una valigia di latta e, immancabile, l'ombrello. Una volta che s'era seduta, metteva la valigia sulle gambe e l'apriva: nei vari scomparti c'erano girandole, bombon, caramelle di liquirizia, e altre leccornie, molto desiderate dai bambini. Poi si spostava nella vicina villa comunale e ricompariva alla fine delle lezioni. Con i suoi piccoli guadagni - leggo nell'articolo - Maria Vedetti, figura tipica di Salerno, si era prodigata "per il mantenimento agli studi di tre futuri religiosi". Uno, "già ottimo e pio sacerdote, in un paese vicino al Capoluogo".
"Del suo meschino 'commercio' - scriveva il Mattino - dava parte a poveri disoccupati: partecipava, attivamente, quale 'socia', all'invio diegli infermi gravi a Lourdes". Era, insomma, una benefattrice che aveva lavorato, nonostante la terribile malattia, fino a trenta giorni prima della dipartita. Le esequie registrarono una grande partecipazione di popolo. Sottolineata la presenza, tra le Dame della Carità, delle signore Bonacci, Emanuelita Centola-Santoro, Vanna Romagnano Buonocore.

martedì 10 aprile 2018

TOBIA, IL PESCATORE DI AMALFI CHE NON SAPEVA NUOTARE


E’ morto ieri ad Amalfi Tobia (all'anagrafe, Antonio) Moretti, un pescatore vero, autentico. Uno che ha cavalcato il mare della Costiera con sudore, con cocciutaggine, con la passione di fare un lavoro, ereditato dagli avi, che rappresentava sostegno quotidiano per la sua famiglia. Di più: un apostolo del mare. Ne aveva il fisico, le caratteristiche somatiche, lo sguardo proiettato oltre la linea dell'orizzonte, anche se il suo campo d'azione era circoscritto allo specchio d’acqua nel quale si riflette il paesaggio amalfitano.
Pensando in questo momento a lui, e ai ricordi, che riaffiorano sempre più in quest'ultimo tratto del mio cammino, mi torna alla mente la mamma, "Seggilia" (Cecilia), donna buona, generosa, tenace, dallo spiccato animo popolaresco, come non ne esistono più. Qualità che aveva assimilate pari pari, già da ragazzo.
Fece parte dell’equipaggio amalfitano che disputò la prima edizione della Regata delle Repubbliche marinare il 1° luglio 1956 a Pisa, sotto lo sguardo del Capo dello Stato Giovanni Gronchi. Io c’ero, con Gigino de Stefano. Ci facemmo carico di molti aspetti organizzativi della manifestazione. Sul galeone col cavallo alato gareggiarono, insieme con lui, Mario Cretella, Bonaventura Amendola, Alfonso Gambardella, Luigi Consiglio, Franco Moretti, Antonio Gambardella, Andrea Esposito, Umberto Buonocore, Vincenzo Vuolo, Luca Fusco, Ferdinando D'Alessandro. Perdemmo, ma fu ugualmente una giornata di festa.
Tobia aveva mani grosse e nodose per gettare e tirare la rete, per ripararne le smagliature, per spingere la barca con la forza dei remi. Con quella dei suoi muscoli da superman. Una volta me ne occupai da cronista: gli era capitata una piccola disavventura, non so dire se un malore o un incidente. Scoprii che egli era in piena sintonia col mare, lo percorreva quotidianamente, di giorno e di notte, sapeva individuare i posti dov'era più pescoso senza bisogno di bussola e coordinate varie. Col mare, però, sapeva anche litigare, e vincere, come quando dovette combattere a denti stretti con le onde, dalla banchina del Pennello, per salvare barca e remi dalla tempesta.
Era un uomo buono, mite, saggio. Devotissimo del santo protettore, l'apostolo Andrea, pescatore come lui. Tobia amava intensamente il suo lavoro. Unico tallone d'Achille, non aveva mai imparato a nuotare.
© Sigismondo Nastri

venerdì 23 giugno 2017

AMALFI HA COPERTO DI SILENZIO IL DECIMO ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI GAETANO AMENDOLA

Quando dico che il nostro è un paese senza memoria vien fuori sempre qualcuno che tenta di contraddirmi. Ma è proprio così.  Dieci anni fa, il 21 febbraio 2007, morì a Roma, all’età di ottantuno anni, Gaetano Amendola. La ricorrenza è passata sotto silenzio. Come se la città avesse voluto cancellarlo dalla memoria. Eppure egli è stato, con Francesco Amodio, Ruggiero Francese, Plinio Amendola, un protagonista di rilievo della storia amalfitana della seconda metà del novecento. Lo scrissi subito dopo la sua scomparsa, lo ripeto oggi.
Gli ero amico, ma non sono stato un suo seguace, un suo sostenitore. Ne ho pure pagato le conseguenze, sulla mia pelle. Come quando, eletto lui a capo dell’amministrazione comunale, la mattina successiva fui allontanato da palazzo san Benedetto con un ordine di servizio. Non ne feci un dramma: capivo di essere la vittima sacrificale dei giochi di potere che avevano portato alla defenestrazione del sindaco Amodio, del quale ero segretario. La politica è una scala: si sale e si scende. Siate gentili con le persone che incontrate salendo – ricorda un cartello nell’Hotel Rand di New York -, perché tornerete a incontrarle scendendo”. 
Conservo tra le mie carte una lettera che mi scrisse nel 1959, in cui dichiarava amore incondizionato per la sua città. Non l'ho mai dubitato. Anche se, a rileggerla adesso, quell'augurio "di poter fare ancora qualcosa per l'avvenire" mi sembra quasi riferito a ciò che successe negli anni successivi. 
Gaetano Amendola, dicevo, è stato, per Amalfi, uno dei personaggi più importanti della seconda metà del novecento. Conosceva le stanze del potere come pochi altri. Le aveva frequentate da quando, giovanissimo, s’era trasferito nella capitale per andare a lavorare al Ministero dei lavori pubblici. Gennaro Cassiani, deputato calabrese, divenuto ministro della Marina Mercantile, lo chiamò alla sua segreteria. Poi Fernando Tambroni lo volle con sé come segretario particolare: allo stesso dicastero di piazza della Minerva (1953-55), all’Interno (1955-59), al Bilancio (1959-60), alla Presidenza del Consiglio (1960). Nel 1959 il politico marchigiano, che aveva messo su un governo con l’appoggio determinante del Msi, fu costretto a dimettersi in seguito a violenti moti di piazza.
Uscito di scena Tambroni, Gaetano Amendola legò i suoi destini a quelli di Arnaldo Forlani, altro marchigiano, giunto in parlamento nel 1958 e avviato a una vera e propria escalation: ministro delle Partecipazioni statali, della Difesa, degli Affari esteri, Vice Presidente del Consiglio dei ministri, Capo del governo, Segretario politico della Dc. Poi le inchieste su tangentopoli travolsero, col partito, anche il suo leader. E lo stesso Gaetano Amendola non ne uscì indenne. Ma questa è un’altra storia.
All’inizio degli anni sessanta Amalfi era una roccaforte dello Scudo crociato, stretta intorno al sindaco Francesco Amodio, che dal 1958 poteva fregiarsi del titolo di onorevole, essendo stato eletto deputato al parlamento. Gaetano Amendola, suo figlioccio (di cresima), sollecitato e mal consigliato da alcuni notabili locali - Nicola Milano, Pietro De Luca, Gerardo Del Pizzo -, decise di impegnarsi in prima persona nella vita amministrativa della città. Non come trait d’union, ma come elemento di rottura. Di conseguenza, la maggioranza consiliare si spaccò e ad Amodio non rimase che farsi da parte. Amendola gli subentrò nella carica di primo cittadino per un quadriennio (dal 1961 al 1965). Terminata quella esperienza si aprì un periodo di instabilità amministrativa, che ridimensionò la Dc e consegnò la guida del comune a un esponente autorevole del Partito comunista, l’onorevole Tommaso Biamonte.
Gaetano Amendola fu anche presidente della Camera di Commercio di Salerno.
Sigismondo Nastri

venerdì 2 giugno 2017

IL MIO INTERVENTO IN RICORDO DI GAETANO AFELTRA. OGGI, NELL'ANTICO ARSENALE DI AMALFI

Amalfi, venerdì 2 giugno 2017, ore 19.30
Antico Arsenale
Cerimonia di intitolazione a Gaetano Afeltra
del Supportico Ferrari


IL MIO INTERVENTO IN RICORDO DI GAETANO AFELTRA

Sono grato al sindaco Daniele Milano e all’assessora Enza Cobalto per avermi concesso la possibilità di portare, in questa circostanza così importante per tutti noi, la mia testimonianza.  Ma più ancora li ringrazio per aver voluto esaudire un voto di tanti concittadini: quello di intitolare il supportico Ferrari a Gaetano Afeltra.
“Mio padre ti ha voluto bene” mi ha scritto in un messaggio Maddalena Afeltra. E’ l’unico titolo che mi riconosco per essere qui. Anche se devo ricordare, per la storia, che questa idea partì proprio da me, subito dopo la scomparsa di don Gaetano, d’intesa con Enzo Colavolpe e Gigino de Stefano, due amici carissimi, che tanto hanno dato ad Amalfi e che pure ci hanno lasciati.  

In Desiderare la donna d’altri, a pagina 7, leggo: «C’è un punto profondo in cui la vita di ognuno comincia, dove si riconosce per quella che è: questo punto può essere un luogo. Quando ancora mi chiedono di dove sono, rispondo con una specie di fastidio: “Sono di Amalfi”. Dovunque e da tutti mi sento dire: “Beato lei, che fortunato!». Gaetano Afeltra, premiato e celebrato in una mostra in galleria per aver fatto grande Milano, non ha mai smesso, nella sua lunga vita, pur standone lontano, di avere Amalfi nel cuore.
Non farò invasione di campo. Non parlerò del giornalista e dello scrittore. Davanti al direttore Ferruccio de Bortoli, e a Ottavio Lucarelli, mio presidente,  non me lo posso permettere. Non parlerò dei deliziosi elzeviri, finiti nei libri, in cui il tema ricorrente è Amalfi: con la storia,  le storie, i riti, le tradizioni. I personaggi, alcuni dei quali avevano accompagnato la crescita umana di Gaetano Afeltra: da Milord, il calzolaio, ad Angelo Tamburrano, giusto per fare un esempio. Dalle fantesche al podestà Francesco Gargano, che  favorì la fuga amorosa del gerarca Attilio Teruzzi per ottenere il finanziamento dell’acquedotto; fino all’onorevole Francesco Amodio, uscito dalla vita politica meno ricco di quanto lo era prima, e alla sorella, la signorina Nina, perfetta padrona di casa, instancabile dispensatrice di caffè e pasticcini.
Voglio parlare di un Afeltra per così dire minore. Compaesano se me lo consentite. Di don Gaetano, come noi lo chiamavamo  ̶  in una terra in cui il “don” indica deferenza, rispetto  ̶ , amato da tutti, che ad Amalfi veniva per combattere lo stress, le tensioni accumulate nel suo lavoro. Non  del “Gaetanine” come lo chiamavano a Milano, di cui dice Giorgio Bocca nel libro “E’ la stampa, bellezza!”.
A me interessa delineare la figura di Don Gaetano, il rapporto con la sua città. Tenuto saldo anche quando, sentendosi tradito, ne rimase lontano, per lunghissimi anni. Inutile tornare su quel che avvenne allora: ormai è tutto archiviato. Ricordo solo la data di morte del fratello don Andrea: 11 novembre 1979.
Ho ancora vivo, nella mente, l’incontro affettuoso che ebbi con don Gaetano al Circolo della stampa, nella Villa comunale, a Napoli, dopo che era stato ospite dell’Università per una conferenza alla facoltà di lettere. E s’era incontrato col suo amico professore Mario Condorelli e signora. C’erano con me Umberto Belpedio e mio figlio Antonio.
Ma, ancora di più, mi torna  nella memoria la gioia per il suo ritorno ad Amalfi, dopo un lungo volontario esilio. Mi affido al racconto  di  Gianfranco Coppola, giornalista Rai: «Una mattina di profumata primavera del ’95 – scrisse – Gaetano Afeltra decise di accogliere gli inviti-perdono di Bruno Pacileo (all’epoca sindaco di Amalfi), di Carlo De Luca e soprattutto di Sigismondo Nastri, collaboratore del Roma e memoria storica della Costa. Così chiese all’autista che lo aveva scorazzato per Napoli dopo un convegno di prendere la A3, uscita Vietri sul Mare. Non disse una parola, fino ad Amalfi. Dove, appena arrivato, pianse senza farsi vedere fingendo di dover scappare subito in bagno. Fu festa grande».
Nella prima giovinezza di Gaetano Afeltra entrano alcune figure di spicco: Angelo Di Salvio, scrittore lucido e lungimirante, che egli definisce in una lettera (che conservo) il suo primo “maestro”. Di Salvio fondò una rivista, “Sirenide”, ci scriveva anche Cesare Afeltra. Dopo il primo numero, fu bloccata. Nell’editoriale c’era l’impegno di combattere in tutti i modi il campanile, male endemico della Costiera. Un tema ancora scottante.
E poi: Mimisca, come si firmava, cioè Mimì Scannapieco – nonno dell’attuale vice presidente della Banca Europea degli Investimenti, Dario – che lo accompagnò, ragazzo, da Carlo Nazzaro per fargli avere la corrispondenza del Roma; e Matteo Incagliati, critico musicale del Giornale d’Italia, amico del padre, segretario comunale, abituale frequentatore di Amalfi, che  gli inculcò la passione per il giornalismo. Lo aveva già fatto col fratello Cesare. Che, aveva iniziato una proficua esperienza a “L’Azione democratica”, battagliero settimanale salernitano.
L’Azione Democratica era fatto ad Amalfi, dove avevano sede la direzione e l’amministrazione ed era stampato a Salerno. Dava ampio spazio alla Costiera, in particolare a quanto avveniva ad Amalfi. La prima pagina era dedicata alla politica nazionale. Quando Cesare Afeltra fu chiamato ad assolvere il servizio militare di leva in Marina, con destinazione a Civitavecchia, poi a Roma, al Ministero della Marina, la sua attività giornalistica diventò più intensa. Cominciò a mandare al giornale articoli politici dal taglio più deciso, cronache parlamentari, che assunsero il titolo di “Lettera da Roma”.
Incagliati lo aveva intanto presentato ad Alberto Bergamini che, apprezzatene le qualità, lo assunse al Giornale d’Italia.
Milano entra in questa mia testimonianza solo per un episodio, riferito al 2003. Mi capitò di partecipare  ̶   lo feci solo per sfizio  ̶  a un concorso letterario promosso dal Lions Milano Duomo con una poesia in vernacolo. Vi descrivevo le nostre chiese, poste nei vicoli e in cima a lunghe file di gradini che, se li fai in salita, ci trovi il cielo, se li percorri in discesa arrivi al mare. La dedica recitava. “A Gaetano Afeltra, il più illustre degli amalfitani”. Vinsi una medaglia d’oro che mi fu consegnata nel salone di rappresentanza della Banca Industria e Commercio in via della Moscova. La giuria era presieduta da Giancarla Re Mursia. Don Gaetano mi mandò un telegramma: “Ricevo molti complimenti per la poesia che mi ha dedicata”. Ne fu contento.
C’è qualche episodio che mi preme raccontare. Nell’estate del 1955 (molti di voi non erano ancora nati),  Il Giornale, vecchio quotidiano liberale napoletano, nella pagina di Salerno, curata allora da Aldo Falivena, pubblicò le caricature dei “Componenti la stampa amalfitana” disegnate da Ignazio Lucibello (altra nostra gloria, ahimè, dimenticata!). Di quel gruppo sono l’unico superstite.  Eravamo giovanissimi  ̶  Filippo Iovieno, venuto a mancare presto, purtroppo, Gigino de Stefano, io – presi dalla smania di fare i giornalisti. E c’erano alcuni notabili – il libraio Antonio Savo; Alfonso Di Salvio, impiegato al Comune; l’avvocato Alfonso Iovane – , per i quali il ruolo di corrispondente era inteso più o meno come un titolo onorifico. Al massimo, mandavano dieci fuorisacco all’anno con notizie di battesimi, matrimoni, necrologi.
Andavamo a caccia di notizie, persino le più spicciole. Se proprio non ce n’erano – faccio un esempio -–  cercavamo di costruircele.
Insieme con Ferruccio de Bortoli  per ricordare Gaetano Afeltra
Il direttore de Bortoli si sorprenderà se dico che, tra i “Componenti la Stampa amalfitana”, c’era il corrispondente del Corriere della sera: Ferdinando Gambardella, compariello, ma anche l’amico più caro di don Gaetano, inseparabile da lui quando stava ad Amalfi. La pagina del giornale, che ho qui, lo documenta. Qualcuno potrebbe domandare: Che ci faceva un corrispondente del più grande quotidiano italiano in un paese  ̶  perché un paese era all’epoca ̶ come Amalfi? Ferdinando aveva il compito di telefonargli tutte le sere, utilizzando quella famosa chiamata “r”, che esisteva a quel tempo, in partenza del giornale. Sempre alla stessa ora. Andavamo in gruppo al centralino telefonico, sullo stradone. Il collegamento iniziava con una formula che era sempre la stessa: “Pronto Corsera, sono Gambardella da Amalfi, mi passa cortesemente il dottor Afeltra?”. Lui voleva che Ferdinando gli riferisse i fatti del giorno, le curiosità, gli ‘nciuci. Di tanto in tanto, qualche notizia da Amalfi usciva sul Corriere,  firmata da Ferdinando Gambardella. Scrivendo per una testata meno importanti, confesso, lo invidiavo.
A Milano don Gaetano si avvaleva anche dei rapporti che gli facevano alcuni amalfitani, trapiantati lì, che orbitavano intorno a lui. Ne cito due, il cui ricordo mi è molto caro: Pierino Florio, direttore della biblioteca Sormani, e Mario Laudano, per noi  Franzosi, che lavorava alla Gazzetta dello sport.
Quando veniva ad Amalfi, per il soggiorno estivo o solo per pochi giorni, don Gaetano aveva due punti fissi di riferimento: la libreria di Antonio Savo, passata al figlio Bonaventura, al quale voleva un gran bene, che gli faceva arrivare di primo mattino i giornali a casa. E il bar Savoia, di Antonio Amatruda.  Sempre lo stesso tavolo, posto ad angolo, in posizione panoramica sulla piazza e sullo stradone. Quasi come il periscopio di un sommergibile. Don Gaetano conosceva tutti, sapeva tutto di tutti. E se non riconosceva qualcuno, chiedeva chi fosse. O magari si faceva spiegare di chi fosse figlio o nipote.
All’inizio del 1977 – ho ritrovato questa notizia in una cronaca di Gigino de Stefano  ̶ gli fu segnalato che i mosaici della facciata del duomo si stavano staccando. Venne da Milano col ministro per i Beni culturali Mario Pedini per un sopralluogo. E subito furono disposti i lavori di risanamento.  Pare che il problema si stia riproponendo: peccato che non c’è più lui!
La sua giornata scorreva sempre uguale: tra la lettura dei giornali, le telefonate, la discesa sulla spiaggia, quando il sole non era alto, in calzoni corti, il capo coperto da un cappello bianco di tela (il mare no, perché non aveva mai imparato a nuotare), e,  la sera, la sosta al bar Savoia. A conversare, salutare, stringere mani, tra una telefonata e l’altra. Se stava di genio – mi ci sono trovato un paio di volte  ̶  faceva chiamare Massimiliano Crosilla, un posteggiatore esule istriano che s’era ben integrato nella realtà amalfitana, e lo conduceva, solo o in compagnia del partner, ‘a Paloff, barbiere-chitarrista, sul molo Pennello a suonare vecchie melodie napoletane. Quelle che più gli piacevano. E si metteva a cantare. Noi con lui, a fargli corona. E si divertiva, negli intervalli, a sfruculiare con un’ironia sottile e pungente il malcapitato Crosilla.
A volte mi telefonava, anche da Milano, per affidarmi qualche incombenza. Era un segno tangibile di predilezione. Mi sento un privilegiato – scrissi il giorno della sua dipartita  ̶  per aver goduto della stima e della benevolenza di don Gaetano. Sapendo la severità nei giudizi, conservo come preziose reliquie le sue lettere di apprezzamento: “mi piace il tuo modo di scrivere, la chiarezza del linguaggio”. Oppure: “sapevo che eri bravo ma gli articoli che ha scritto da Pavia me ne hanno dato la prova”. O ancora: “Ho visto l’onorevole Amodio e abbiamo parlato della tua bravura giornalistica”. Per me valgono come un diploma di laurea.
Quando morì la mamma, la signora Maddalena, mi volle per due giorni a casa sua (chiedendo il piacere all’onorevole Amodio, del quale ero segretario) perché lo aiutassi a rispondere alla montagna di messaggi di condoglianze. Mi capitarono tra le mani quelli del Papa e del presidente della Repubblica (Giuseppe Saragat).
Nel venticinquennale della morte del fratello monsignore, l’indimenticabile don Andrea, mi chiese di organizzare una rievocazione solenne: che avvenne con la messa in cattedrale e la pubblicazione di un libretto, stampato da Peppino De Luca, su carta a mano della cartiera Amatruda, con le testimonianze di don Andrea Colavolpe, Gigino de Stefano, del preside Andrea Maiorino. Oltre alla mia, naturalmente. Ci riempì di elogi e di ringraziamenti. Pochi giorni dopo, la perdita della moglie, la signora Adriana, lo gettò in uno sconforto dal quale non si riprese più.
Ritornando al bar Savoia, ricordo che Tonino Amatruda, per evitargli il fastidio di alzarsi, aveva fatto allungare il filo del telefono fino al tavolo di don Gaetano. Così poteva star comodo. A quel tavolo ci trovavamo spesso anche noi:  da Umberto Belpedio, per lunghi anni inviato permanente del Roma in Costiera, don Gaetano voleva ragguagli sulla vita mondana, sulla high society che allora popolava la Costa; con Camillo Marino, critico cinematografico, fondatore con Pasolini del Premio Laceno d’oro, il discorso inevitabilmente cadeva su Roberto Rossellini e i film girati sulla costa:  La macchina ammazzacattivi, Paisà, Viaggio in Italia, L’amore. E quindi su Fellini, la Bergman, la Magnani. Con me e Gigino de Stefano parlava di politica locale o degli episodi di cronaca di cui c’eravamo occupati.
Quando Patrizia Rusconi, nel 1989, gli chiese un appuntamento per intervistarlo, don Gaetano le rispose: «Per prima cosa le offro un caffè al bar Savoia e mi trovo una scusa per non resistere al profumo dei dolci e alle scorzette candite fatte con i nostri agrumi che sono i migliori del mondo».  In un’altra occasione dichiarò a Luciana Boldrighi Paroli che a quel tavolo, con Dino Buzzati, aveva scritto “Positano darà la luce al mondo”  e con Vitaliano Brancati gli era venuta l’idea di quell’altro racconto delizioso,  “Spaghetti all’acqua di mare”. Anche la prima pagina a colori del Giorno diceva che era nata qui,  alle quattro della mattina, in collegamento telefonico con Milano. Quasi ad avvalorare una sentenza del Montesquieu: «Il caffè è l’unico luogo dove il discorso crea la realtà, dove nascono piani giganteschi, sogni utopistici e congiure anarchiche, senza che si debba lasciare la propria sedia».
Sigismondo Nastri

                                                                 
                                                                     

martedì 16 maggio 2017

MONS. ERCOLANO MARINI, PASTORE, PADRE E MAESTRO. ALL'INDIMENTICABILE PRESULE, IL 17 GIUGNO, MATELICA INTITOLERA' LA PIAZZA ANTISTANTE LA CHIESA DEL CROCIFISSO

Il 17 giugno - scrive L'Azione, settimanale della diocesi di Fabriano-Matelica - ci sarà una grande giornata, a Matelica, dedicata a Mons. Ercolano Marini. All'indimenticato presule, che fu per trent'anni - dal 1915 al 1945 - arcivescovo di Amalfi, sarà intitolata la piazza antistante la Chiesa del Ss. Crocifisso. 
La Chiesa amalfitana, rinunciando alla possibilità di avviare la causa di beatificazione di Mons. Marini (attesa da tante persone, che a lui indirizzavano le loro preghiere - ricordo di aver visto una volta un'immaginetta al capezzale di un infermo, in ospedale -, e da me più volte invocata), ha perso un'occasione storica.
Su Mons. Marini ripropongo qui il mio saggio, già pubblicato su questo blog il 2.6.2007.

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Nella cattedrale di Sant’Andrea, in cima alla scala che conduce alla cripta, riposano le spoglie di mons. Ercolano Marini, che fu arcivescovo di Amalfi dal 1915 al 1945. I fedeli – quelli più anziani, che ebbero la fortuna di conoscerlo - si fermano dinanzi alla tomba, sovrastata da un Crocifisso, e si raccolgono in preghiera. I buoni, i santi non si possono dimenticare.
Monsignor Marini morì a Roma, nell’Istituto della Fraternità Sacerdotale, dove si era ritirato, il 16 novembre del 1950. La mattina del 19, domenica, la salma fu trasportata ad Amalfi, accompagnata dai nipoti Pietro e Remo Marini. Scortata da Carabinieri in motocicletta, giunse in città alle quattro del pomeriggio, “accolta trionfalmente, da due ali di popolo” [1].
Era nato a Matelica (Macerata) il 21 novembre 1866. Queste le tappe fondamentali del suo percorso di vita e di apostolato: studi nel seminario di Fabriano; ordinato sacerdote il 21 settembre 1899; laureato in teologia a Bologna; parroco di Tonicoli dal 27 marzo 1892; canonico della cattedrale di Matelica dal 19 agosto 1894;  priore della cattedrale di Terni dal 7 settembre 1899; vicario generale del vescovo di Spoleto dal 13 gennaio 1901; eletto vescovo titolare di Archelaide in Palestina il 29 giugno 1904; consacrato il 31 luglio successivo; trasferito a Norcia l’11 dicembre 1905. Promosso arcivescovo di Amalfi il 2 giugno 1915, vi rimase fino al 3 ottobre 1945.
Ad Amalfi giunse in un momento difficile, in piena guerra mondiale,  accompagnato dalla fama di brillante oratore e di elegante scrittore che aveva “dato alle stampe più che venti lettere pastorali, testimoni della profonda pietà sua non meno che della sua elevata coltura teologica e letteraria, mentre a Roma e Genova ed altre città della Liguria e del Veneto ne ricordano i suoi discorsi” [2]. A Norcia si era impegnato per veder ultimata, prima di lasciare quella diocesi, “la sistemazione e l’abbellimento della cripta di S. Benedetto, ove questi e la sorella S. Scolastica videro la luce nello stesso giorno e nella stessa ora” [3].
Dopo un trentennio di guida dell’arcidiocesi amalfitana, chiese a Pio XII, che lo aveva ricevuto in udienza,  di volerlo dispensare da quell’incarico gravoso in quanto, dopo tanti anni di governo delle anime, sentiva “il bisogno di solitudine e di silenzio”. Fu, il suo, un gesto anticipatore della norma introdotta da Paolo VI, che impone ai vescovi di dare le dimissioni al compimento del settantacinquesimo anno di età.
Nel commosso discorso di addio, il 30 settembre 1945, in una cattedrale gremita di popolo, tracciò il consuntivo della sua attività: “Abbracciando in una visione di volo la vita pastorale svoltasi nel lungo periodo, mi riappare in soavità rinnovata la vostra adesione alle mie iniziative e il vostro affetto devoto, che è culminato nella celebrazione solenne dei miei giubilei e del quarantesimo del mio episcopato. Ma, insieme con l’affermazione del vostro filiale attaccamento, così generale e costante, non potevano mancare e non sono mancate ansie, incomprensioni ed amarezze, in cui, logorandosi, la mia vita si è venuta consumando come sopra un altare: ad immolandum Domino veni! Sotto l’azione di forze che crocifiggono, la grazia divina mi ha spinto ad effondermi per il bene di tutti e dei singoli. È stato, quindi, giocondo per me il dispensare quanto ho avuto di risorse economiche e lo spogliarmi degli stessi oggetti preziosi, che avevano anche il valore di memorandi ricordi. E adesso nella gioia della povertà avvolgo l’umile sacrificio di me stesso, che offro al Padre celeste per il bene comune: ad immolandum Domino veni! Il sacrificio non è stato infecondo. Lo splendore assunto dalla sacra Liturgia, il rinnovamento di tanti sacri edifici, la fondazione e lo sviluppo dell’Orfanotrofio maschile e di altre Istituzioni di educazione cristiana, l’affermazione del culto della SS. Trinità con il suo Santuario in Amalfi, queste ed altre opere di carità cristiana, che oggi esistono e ieri non esistevano, hanno assunto forma e vigore dal Sacrificio di Cristo, a cui ho cercato di ispirare il mio ministero e la mia vita: ad immolandum Domino veni!”.
 La lunga permanenza ad Amalfi fu caratterizzata dai due conflitti mondiali, da gravi calamità naturali, che fecero emergere tutta la sua sensibilità, tesa “a cogliere le fasi più significative della tormentata e aspra esistenza del popolo sottoposto alla giurisdizione dell’alto officio di lui” [4]. Il 31 luglio 1919 vi inaugurò, in un edificio donatogli dalla famiglia Torre,  l’orfanotrofio, che volle dotare di una scuola di formazione professionale per ebanisti e meccanici.  Un’opera realizzata con coraggio e fede nella Provvidenza divina, “senza mezzi, senza poteri, senza validi aiuti”, che poté accogliere orfani di guerra, poi altri fanciulli e ragazzi “privi della carezza paterna o materna”.
La creazione di un orfanotrofio, “mentre la guerra aveva compiuto il suo ciclo di odio e di sangue - rilevò Matteo Incagliati, un giornalista che conosceva bene la realtà locale -, parve all’arcivescovo mons. Ercolano Marini una necessità sociale, una ispirazione del ministero divino cui l’illustre prelato confida con austera virtù e con fervida anima le sue idealità. E gli orfani di guerra della città di Amalfi furono così tratti dalla via, e raccolti in un asilo, dove signoreggia lo spirito della solidarietà umana, non la pietà, non la carità. Perché l’arcivescovo Marini con la parola e con le consuetudini del suo ministero è riuscito a far sentire come il precetto di Gesù per i fanciulli abbia tale e tanta forza di suggestione da sollevare i diritti dell’amore in un’alta sublime sfera” [5]
Mons. Ercolano Marini
Alla conclusione della guerra 1915-18, nella lettera pastorale dal titolo “Dopo la vittoria”, affrontò il problema della dignità femminile in termini molto forti. Era rimasto colpito da un album di fotografie ad uso dei turisti che ritraeva “donne portanti al collo lunghi barili e una verga in mano e sotto la scritta: “Costumi di Amalfi””. “O cari – invocò -, per il comune decoro, strappate quella pagina, che ci condanna e ci infama, mostrando ai più lontani ammiratori delle nostre naturali bellezze quanto ancora siamo indietro nelle vie luminose della civiltà”.  E aggiunse: “Pare che una condanna pesi ancora sulle donne dei nostri villaggi. Curve sotto inverosimili pesi, esse discendono alla valle per innumere multiformi scale sconnesse, per sentieri rocciosi, levigati dai quotidiani sudori di doglia, correndo per conservare l’equilibrio, e spesso cantando, quasi a mostrare che nello schiacciamento del corpo essere conservano l’anima libera a elevarsi a nobili sensi e a delicati pensieri. Ma vederle in quell’atteggiamento di spasimo, sentire il fiotto concomitante gli sbalzi della loro cadenzata discesa, commuove e genera la brama, che sorga un braccio a redimerle. Sono povere vecchiette, a cui il bianco crine non dà ancora il diritto di un pane tranquillo e di un onesto riposo; sono giovani madri, che i poppanti bambini per lunghe ore invano cercano con i sorrisi e con lacrimosi vagiti e non riànno se non defaticate e oppresse; sono soavi e innocenti fanciulle, condannate a camminare col capo verso terra, mentre dovrebbero tenerlo alto per raccogliere gli effluvi degli alberi e i baci del sole. Ignare delle conseguenze funeste, esse inconsapevolmente minano la propria esistenza. Al loro pesante lavoro deve ascriversi l’anemia così diffusa, la frequente tubercolosi, il tumore deformante, la precoce vecchiaia. Sminuite e schiacciate, non possono poi dare che una generazione debole e immiserita. Tessete la dogliosa statistica dei rachitici, degli storpi, dei mentecatti e, senza timore di errare, assegnatene la più grande parte di responsabilità al deprimente sistema, per cui la donna deve surrogare ancora la bestia da soma, dopo venti secoli di civiltà cristiana”.
 Il 26 marzo 1924 un violento nubifragio si abbatté sul versante occidentale della Costiera amalfitana, seminando lutti e rovine. Quella grave calamità ispirò la sedicesima lettera pastorale, nella quale l’arcivescovo invitò a non ritenere il disastro “un castigo. Questo concetto può perdonarsi a persone ignare del Vangelo; non a noi che ne meditiamo tanto spesso le pagine sante”. Il disastro, sosteneva mons. Marini, “è destinato ad irradiare i misteri della vita e a mettere a nudo la nostra insufficienza superba. Noi andiamo orgogliosi delle conquiste dell’ingegno umano, che è giunto a domare le cieche forze della natura e ad incanalare le sue poderose energie.  Incagliati, famoso giornalista, che abitualmente trascorreva ad Amalfi i suoi momenti di riposo, commentò: “Questo prelato ha una mente nutrita di forti studi e un’anima non insensibile alle ansie e alle speranze del popolo. La sua missione non si esercita, non si esaurisce nell’ambito della gloriosa cattedrale, ma va oltre l’altare, oltre il suo trono; e il suo spirito vaga per le vie, come a sollevare miserie, come a rinnovare pace alla gente affaticata e pensosa. È la sua un’opera che ricorda quella dei santi uomini della fede cristiana; poiché la Chiesa, auspice mons. Marini, non è più la reggia degli eletti, ma la reggia di tutti, nel nome di Dio” [6].
L’episcopato di mons. Marini fu interamente consacrato al ministero della parola ed alla generosa dedizione alla causa dei più bisognosi. L’arcivescovo dava “tutto il suo e quanto gli passava per le mani”, riferì don Antonio Turri, un religioso guanelliano che per cinque anni (1940-45) diresse il “suo” orfanotrofio. Lo confermano, del resto, due episodi, raccontati dallo stesso don Turri a mo’ d’esempio:  “Il popolo, dopo lo sbarco del settembre 1943, era come non mai non solo smarrito moralmente ma anche fisicamente provato e debilitato. Quanta pena facevano fanciulli e bambini scheletriti e affamati! Un giorno si trovò tra le “vecchie” cose della Cattedrale una preziosa croce pettorale (della sua se ne era già privato, conservandone una di semplice ottone!): avrebbe voluto alienarla per distribuire il ricavato alla povera gente, ma non vi riuscì. In un’altra occasione, poco prima di lasciare la Diocesi (settembre 1945) per la Badia di Finalpia, mi chiamò, mi mostrò alcuni pezzi di posateria d’argento, pregandomi di recarmi a Salerno per venderli. Ricordo che dovetti faticare tutta una giornata per non “svendere”. Trovai finalmente una brava persona che, capito di che si trattava, acquistò i pezzi di argento, consegnandomi, oltre al prezzo pattuito, anche una generosa offerta. Tornato ad Amalfi, consegnai il danaro all’Arcivescovo; il giorno seguente mi richiamò e mi diede un elenco di famiglie da soccorrere e la relativa somma da lasciare ad ognuna. “Ora non ho più nulla – mi disse – lascio la Diocesi povero, per vivere i miei ultimi anni, come ho sempre desiderato di vivere, povero come Gesù” [7]. E così, nel testamento spirituale, poté annotare: “Nulla possiedo; né stabili, né oggetti preziosi, né titoli di Stato, né moneta contante. Come sono grato al Signore dello stato di povertà, in cui lascio la terra!”.
Scorrendo i titoli dei libri di mons. Marini emerge che tutta la sua attività pastorale fu incentrata sul mistero del Dio Uno e Trino: Gli Splendori del Credo; La SS. Trinità nei Sacramenti della Chiesa; La SS. Trinità e la vita cristiana; La SS. Trinità e la morte cristiana; La SS. Trinità e il tempio cristiano; “Candida Rosa”. La SS. Trinità in Maria SS.ma, negli Angeli e nei Santi; S. Giuseppe nelle irradiazioni della SS. Trinità; Dal culto dell’Eucaristia al culto della SS. Trinità; Gloria Tibi, Trinitas.
Altre opere: Il Prof. Giuseppe Moscati; Profili biografici del Ven. Nunzio Sulprizio; Vita della Serva di Dio Filomena Giovanna Genovese; Facciamoci Santi; S. Adriano Martire, La Terra Santa; Nel corso degli avvenimenti.
La ricca e documentata biografia del professore Giuseppe Moscati, scritta per venire incontro al desiderio espressogli dalla sorella del “medico santo”, Anna, e dal  gesuita Padre Giovanni Aromatisi [8], fu pubblicata (fuori commercio) nel 1929, appena due anni dopo la morte dell’illustre clinico napoletano. Essa si chiudeva con l’interrogativo: “Che ne sarà del Moscati?…” a cui seguiva questa considerazione: “Io non sono in grado di sollevare il velo in cui è avvolto l’avvenire… Io amo vedere l’anima del prof. Moscati che con gli eletti scioglie il canto ineffabile a cui unisco l’umile canto dell’anima mia” [9].  Tra coloro che lessero il libro vi fu Mons. Angelo Giuseppe Roncalli, allora visitatore apostolico in Bulgaria. Congratulandosi con l’autore per aver voluto presentare a tutta la Chiesa la mirabile figura del prof. Moscati, “laico perfetto, splendido fiore di santità e di scienza”, il futuro Papa Giovanni XXIIII, in data 3 novembre 1929, aggiungeva: “Non mi farei meraviglia se se ne volesse introdurre la causa di beatificazione, nel qual caso sarei pronto a sottoscrivere la supplica”.  Giuseppe Moscati, che Giovanni Paolo II ha canonizzato il 25 ottobre 1987, fu proclamato beato da Paolo VI il 16 novembre 1975, proprio nella ricorrenza del venticinquesimo anniversario della morte di Mons. Marini. Semplice coincidenza? Papa Giovanni è diventato beato. Si sarebbe potuto avviare anche per mons. Marini lo stesso iter procedurale. Lo auspicava, nel corso di una cerimonia rievocativa, in cattedrale, il compianto onorevole Francesco Amodio, già sindaco di Amalfi: “Mentre e sepulchro adhuc clamat Gloria Tibi Trinitas, nel Cielo il Suo spirito è tuffato in eterno nei gaudi del Dio Uno e Trino. Sorgerà il giorno in cui anche monsignor Marini potrà essere annoverato tra i Santi che noi veneriamo? Noi formuliamo il voto e l’augurio”[10]. Mi sono fatto anch’io interprete di questo sentimento parlandone, più di una volta, sia con mons. Depalma, quando era alla guida dell’arcidiocesi di Amalfi-Cava, sia con l’attuale arcivescovo mons. Soricelli. So bene, però, di non avere titoli per farmi ascoltare.
Gli Splendori del Credo, edito nel 1933, ristampato nel 1938 e nel 1939, pubblicato anche nella traduzione in lingua spagnola, raccoglie le lettere pastorali scritte nel decennio 1924-1934. I relativi dogmi, trattati con grande profondità teologica, “sono presentati con un ordine logico preciso ed esposti con uno stile fluido e convincente. Nessuna pesantezza cattedratica, nemmeno il minimo smarrimento in quisquilie e secondarietà, si nota nell’importante lavoro: ma di ogni verità una nitida visione d’insieme, e poi un’analisi accurata della sostanza, una presentazione geniale. Vi alita, con il raggio della scienza, un fervore entusiasta perché la Verità non si perda nell’arida astrazione, ma si renda accessibile, sia ricevuta, amata, seguita, e possa fecondare e rendersi evidente nelle opere della pietà, dell’adorazione, dell’amore” [11]. Don Giuseppe De Luca, sull’Osservatore Romano, riconosceva a mons. Marini il merito di essersi dedicato ad opere di edificazione e di istruzione cristiana, tese a glorificare il mistero della SS. Trinità, in un tempo in cui verso di esso esisteva una certa indifferenza, dovuta ad “un fenomeno più vasto e più doloroso. Su taluni dommi e cioè sui maggiori, alcuni cristiani provano quasi un senso di disagio, quando ne debbono parlare. Sorvolano, accennano, eludono… Lo sforzo di molta, di troppa intelligenza europea durante gli ultimi due secoli – aggiungeva l’illustre teologo – si è diretto contro il mistero cristiano. Filosofia, storia, scienze naturali, scienze sociali, arti, si son ritrovate per opera di molti a congiurare dapprima e poi a marciare apertamente contro il soprannaturale… I pallidi cristiani, che dicevamo, si sono gettati a gridare, anche loro, limitandosi a professare quella parte della nostra Fede, che si fosse accordata con il rumore mondano. Quanti discorsi, più consoni al secolo che non all’eternità! Quante ansie, più proprie del nostro tempo che non della nostra anima e del nostro Dio! Quanta viltà, mascherata di zelo, nel presentare il cristianesimo come una concezione adattabile per tutti gli uomini in tutti i tempi!… Contro così pusillanime atteggiamento hanno reagito studiosi insigni, narrando la storia del domma della SS. Trinità o illustrandolo; hanno reagito anime stupende, che del domma della SS. Trinità hanno fatto la loro gioia e la loro gloria nella contemplazione” [12]. Mons. Marini era tra questi.
Come rileva don Andrea Colavolpe, nella sua biografia del venerato arcivescovo, Gli Splendori del Credo si proponeva di “offrire una ricca riflessione sulle verità professate nel Credo”. Mons. Marini “intese colmare due lacune. La prima: si predica molto spesso la dottrina morale di Gesù, molto meno i principi che l’informano, cioè il dogma, e ciò produce un profondo disagio. Perché, se nella Morale si presenta la virtù da vivere, il giogo di Cristo da portare, è necessario, anche, nel Dogma, far comprendere che quel giogo diventa “leggero”, perché lo Spirito Santo dona la grazia e l’amore nei Sacramenti. Il Marini, poi, presenta il Dogma non in una maniera arida e distaccata – questa sarebbe la seconda lacuna – ma col calore della convinzione, capace di destare l’ammirazione, lo stupore. Riporta, a proposito, nella prefazione, una pagina di un autore, il gesuita p. Plus, che vale la pena di trascrivere: “Com’è doloroso osservare che si può per sei mesi studiare il trattato della Grazia e del Verbo Incarnato senza rimanere stupiti una sola volta, commossi una sola volta, senza aver ammirato una sola volta, senza aver toccato nulla di vivo una sola volta! Non abbiamo palpato se non qualcosa di scheletrico, di scarnito, di morto. I trattati teologici sfilano uno a uno, fiori magnifici, ma fiori da erbario. Eppure la realtà che dovevano tradurre è tanto ricca, tanto viva! Quale strana facoltà di sdoppiamento nell’uomo, di potersi trovare così in contatto intellettuale, incessante con Dio, senza forse pensare un a sola volta a Dio, senza forse unirsi una sola volta a Dio!”. L’Arcivescovo si era accostato alla Teologia con animo d’asceta. Esso aveva vibrato. Ora desidera trasfondere attraverso la penna nei cuori i contenuti meditati, approfonditi nei suoi raccoglimenti per presentare, viva, una dottrina che lo incantava: Dio, Uno e Trino, Creatore, Provvidente; Gesù, il Verbo che s’incarna, che fonda il suo Regno, che fa l’uomo “nuovo”, che rimane con noi nell’Eucaristia; Maria nel piano della Redenzione; lo Spirito Santo nell’attuazione della salvezza; la Chiesa Corpo Mistico; il Sacerdozio; l’Episcopato; il Papa; la Comunione dei Santi; la Vita eterna. […] La SS. Trinità domina in ogni singola trattazione”  [13].
Nella ricorrenza del quarantesimo anniversario della morte, mons. Gioacchino Illiano, amministratore apostolico dell’Arcidiocesi di Amalfi - Cava de’ Tirreni, sottolineò l’elevata e feconda visione teologica di mons. Marini - quella, appunto, trinitaria, cui saldamente aveva ancorato la sua molteplice azione pastorale, - e il ruolo di esponente di punta del movimento liturgico in Italia (che gli ottenne, da parte dell’abate benedettino di S. Maria di Finalpia, D. Salvatore Marsili, insigne maestro di Liturgia, una menzione significativa nella Introduzione alla Liturgia, edita dalla Marietti): qualità che avevano fatto di lui “un precursore della nuova stagione ecclesiale, inaugurata dal Vaticano II con la riforma liturgica e la riscoperta della centralità del mistero trinitario nell’economia della salvezza” [14]. Peraltro, già nel maggio 1914, il primo numero della “Rivista Liturgica”, citando ampiamente la XIV lettera pastorale “La Preghiera”, pubblicata nel 1911, quando era vescovo di Norcia, gli aveva assegnato un posto d’onore nel risveglio del movimento liturgico in Italia [15].
© Sigismondo Nastri



[1] La morte di S.E. Mons. Ercolano Marini, in: Rivista Ecclesiastica Amalfitana, anno XXXVI, n. 1, gennaio-febbraio 1951.
[2] Pistone G.E., Mons. Ercolano Marini metropolita amalfitano, in: “Pro-Famiglia”, 20 giugno 1915.
[3] Ibidem.
[4] Incagliati M., Lo spirito di un sacerdote mentre Amalfi rinasce, in: “Il Giornale d’Italia”, 16 aprile 1924.
[5] Incagliati M., Un Arcivescovo, in: “Il Giornale d’Italia”, 14 settembre 1922.
[6] Incagliati M., Lo spirito di un sacerdote…, cit.
[7] Turri A., L’Arcivescovo Ercolano Marini e la sua carità, in: “A S.E. Mons. Ercolano Marini (nel XXV della morte)”, a cura della famiglia De Luca, 1975.
[8] Marranzini A., Ferrini, Moscati e Giovanni XIII tre apostoli, testimoni di santità, in: “Il Gesù Nuovo”, n. 1, gennaio-febbraio 2003.
[9] Marini E., Il Prof. Giuseppe Moscati della Regia Università di Napoli, Giannini, Napoli 1929.
[10] Amodio F., Ricordo di Monsignor Ercolano Marini, discorso pronunciato nella cattedrale di Amalfi il 16 novembre 1991.
[11] “Perfice Munus”.
[12] “Osservatore Romano”, 4 giugno 1939.
[13] Colavolpe A., Quasi aquila nell’Infinito. Ercolano Marini, l’Uomo, il Pastore, il Teologo, De Luca Editore, Salerno 2000.
[14] Illiano Mons. Gioacchino, Lettera di presentazione dell’opuscolo “O Beata Trinità! – Preghiere dettate da Mons. Ercolano Marini”, edito a cura della famiglia De Luca in occasione del 40° anniversario della morte, ottobre 1990.
[15] “Rivista Liturgica”, 1, 1914. Cfr. anche: Mons. Marini pioniere in tempo di nebbie liturgiche, in: “A. S.E. Mons. Ercolano Marini”, cit.