sabato 16 maggio 2020

UN PENSIERO PER EZIO BOSSO

Non sono intenditore di musica. Uno dei crucci che mi porto addosso è quello di non aver avuto un’educazione musicale. Ma ho l’attenuante di essere cresciuto in tempo di guerra, quando non c’erano i mezzi e neppure le opportunità per studiarla.
Questo non significa che non sia capace di apprezzare un’esecuzione, non sotto l’aspetto puramente tecnico, no, ma quello emozionale certamente sì. Ascoltando un brano posso emozionarmi, rattristarmi, commuovermi, andare in estasi, esaltarmi, agitarmi.
Leggo tanti commenti alla notizia della morte di Ezio Bosso. Non vorrei che l’amore per lui fosse legato ai problemi di salute che lo tormentavano da un po’ di anni. Che tuttavia non lo avevano mai fermato, non gli avevano mai fatto perdere il sorriso sulle labbra.
No. Bisogna tenere ben distinti l’uomo e l’artista. Il primo ha rappresentato un esempio per quanti si trovano alle prese con problemi più o meno simili ai suoi. Anzi, per tutti coloro che sono costretti a combattere una battaglia quotidiana contro il male. Senza farne oggetto di strumentalizzazione, però.
La mia preoccupazione – ed era anche la sua – è che la popolarità conquistata con l’esibizione all’Ariston durante il festival di Sanremo del 2016 potesse essere stata condizionata da un sentimento di compassione (dal latino cum-patior, partecipazione alle sofferenze altrui) per quei problemi fisici che si trascinava faticosamente, senza però mai perdere il sorriso sulle labbra. Ne dà conto Giuseppina Manin in un lungo articolo dedicato al maestro sul Corriere della sera di oggi: «Soprattutto gli dà fastidio il tipo da concerto rock che la sua presenza carismatica scatena in sala, Con lui, sollevato di peso dalla carrozzella e adagiato sul sedile del podio, la bacchetta alzata come trofeo, i sorrisi contagiosi lanciati ai suoi musicisti della Europe Philarmonic. “Il lato più doloroso è stato venir considerato da alcuni un fenomeno da baraccone” confessava amaro.»
Mi sarei aspettato anche l’intervento di un addetto ai lavori, critico musicale o musicista, sulle qualità di Bosso come compositore, pianista, direttore d’orchestra. Soprattutto come straordinario interprete di Beethoven. Il programma riproposto da Rai3 ieri sera, “Che storia è la musica”, lo ha dimostrato ampiamente anche a un profano come me.
Per comprendere la complessità del personaggio, il suo pensiero, il suo concetto di avvicinamento alla musica, bisogna leggere una vecchia intervista a l’Espresso, dell'ottobre 2019, dove egli si racconta, a partire dalle origini. E sottolinea la necessità del rigore nello studio perché «la musica è un investimento pesante, difficile… L’unica religione è la disciplina per guadagnarsi una credibilità». E insiste: la musica «è un modo sacrificale di impegno costante».

Nicola Cattò, su Musica, lo definisce «musicista completo, classicamente educato, pieno di idee e di coraggio». Dopo che la stessa rivista, già nel settembre 2017, recensendo un suo concerto beethoveniano a Trieste, non aveva esitato a proclamarlo direttore vero. «Per l’ardore che Bosso ci mette nel piacere del far musica, di stimolare la partecipazione del pubblico – scrisse nell’occasione, sulla stessa rivista, Gianni Gori -, di comunicare con l’orchestra governata con equilibrio in quel programma beethoveniano della “libertà” che accostava il grande Stupore, la Suspense della Leonora n. 3 all’esaltazione della Settima Sinfonia. Bosso ne sostiene la dialettica confermandosi un direttore “vero”, che ha salda consapevolezza formale. Della grande forma in questo senso. È invece la forma breve che prevale nelle due composizioni londinesi dello stesso Bosso: Split (Postcards from far away) e Rain, variazioni sinfoniche per pianoforte e orchestra di recente fattura e di analoga struttura. Muove, la prima, da una cellula di cinque note in un’area che sembra fondere gli echi “baltici” contemporanei a quelli italianissimi alla Rota che la fanno vorticare in una sorta di visionario ballo da Gattopardo. Muove, lo spunto postromantico della seconda, nell’ambito di un effettismo minimalista “suggestivo” a pronta comunicativa, che il pubblico ha molto gradito, acclamando l’autore/pianista e direttore.»
© Sigismondo Nastri

lunedì 20 aprile 2020

“LA STRATEGIA DELL’OMBRA” DI SERGIO ZAVOLI IN UN ATTENTO CHECK UP DI ANDREA MANZI SUL QUOTIDIANO DEL SUD

Andrea Manzi – e chi, se non lui, che gli è affine per cultura, lucidità di pensiero e sensibilità – ha dedicato sul Quotidiano del Sud (edizione Salerno, di cui è direttore) una lunga recensione all’ultima raccolta poetica di Sergio Zavoli, “La strategia dell’ombra”, edita da Mondadori quattro anni fa. Che io – lo dico subito, ad evitare malintesi – non ho ancora letto (mi propongo di acquistarlo quanto prima), e me ne dolgo assai.
Zavoli è stato, con Enzo Biagi, uno degli idoli (intendo, maestri ai quali mi volgevo con devota attenzione) fin dalla mia giovinezza. In due diversi ambiti, che mi appassionavano allo stesso modo: Zavoli per il “Processo alla tappa” del Giro d’Italia, poi per i magnifici reportage: da quello struggente “Clausura”, in radio, del 1958, a “Viaggio intorno all’uomo” a “La Notte della Repubblica”, per citarne alcuni, che, secondo me, hanno raggiunto il livello più alto nella storia del nostro giornalismo televisivo.
L’amore per Biagi, invece, risale ai tempi della sua direzione di Epoca e non s’è mai interrotto, neppure dopo il diktat berlusconiano che lo mise fuori dal palinsesto della Rai.
Sergio Zavoli l’ho pure intervistato una volta, a Positano. Conservo cara la sua dedica su “Viva l’Itaglia”. Ebbi il piacere e l’onore, una sera dell’estate 1996, di stare a tavola all’Hotel San Pietro con lui e Francesco Paolo Casavola. Ricordo ancora, con immutata emozione, quella straordinaria esperienza.

Ma torno a “La strategia dell’ombra”.
Dell’analisi che ne fa Andrea Manzi, profonda, dettagliata, complessa, accattivante, stralcio un passo che mi pare particolarmente significativo: la poesia di Zavoli – scrive il direttore - «disegna la linea di un orizzonte storico poeticamente dilatato (“è una remota idea la storia / che si affidava ai miti, come / non è reale solo il razionale…”), rassicurante riferimento per ogni lettore oscurato dall’eclisse del tempo.
Le ore ferme e infinite angosciano, nelle tragedie indossano i calzari di piombo e sembrano schiacciarci su un presente statico ineluttabile: il tempo immobile alimenta, in questo severo e godibile libro, teneri ricordi di guerra, quando la libertà baluginava nelle feritoie della speranza e il poeta, tra i cascami della tragedia immane, non scorgeva la vita (“… in quel vuoto cercavo qualcosa di rimasto / alle sue forme, si vedevano solo i campanili / a guardia del disastro…”). Erano sere amare che “si stringevano d’un tratto”, e nelle quali “l’ombra si induriva, / sembrava avere anch’essa la sua ombra”). Sono i versi dell’assenza desolante, della fine delle cose, dell’ombre inspessita e non ancora strategica; ma nella poesia di Zavoli lievita il rimedio, compare l’uscita di sicurezza che è, poi, l’entrata nella contraddizione del divenire, nella drammaticità dei conflitti dell’esistenza. “Occorrerebbe un vento / che avesse la facoltà di far salire / nell’azzurro del cosmo / un suono destinato a portare / il grazie della Terra a chi, / forse un angelo musicante, / aveva dato asl pianoforte roco, in quei mattini, / un suono così umano”. Il bivio, la sponda, l’attesa diventano partenze/soste, attraverso le quali il poeta tenta di scolorire l’ombra-guida che la vita gli affidò come bussola, sonda di giovinezza, lampada mitica.»
Sigismondo Nastri

giovedì 31 ottobre 2019

IL CULTO DEI MORTI PRIMA DI HALLOWEEN

Quando ero bambino, e per fortuna non esistevano le mostruosità di Halloween, le mamme raccontavano ai figliuoli che la notte di Ognissanti i nostri cari, passati nell'aldilà, tornano sulla terra, per concessione divina, e ci restano fino al giorno dell’Epifania. Non li vediamo - le anime sono puro spirito -, ma ne avvertiamo la presenza costante accanto a noi. Ci guidano, ci conducono per mano, accompagnano le nostre azioni, vegliano sul nostro sonno.
Era una favola dolce, per nulla impressionante, volta a tener viva la memoria dei defunti.
Mi piace crederci ancora.

domenica 29 settembre 2019

LA CASSAZIONE GIUSTIFICA LA REAZIONE AD ATTI DI BULLISMO

LOMBROSO, IL MUSEO DEL CINEMA E LE "DELINQUENTI" NAPOLETANE

Prendo la notizia dal Corriere del Mezzogiorno dell'altro ieri.
Il Museo del Cinema di Torino, istituzione di tutto rispetto, ospita fino al 6 gennaio una mostra dedicata a Cesare Lombroso (1835-1909). Mi fa impressione vedere esposte immagini di donne, definite ladri o falsarie, con la sottolineatura "delinquenti napoletani".
Lombroso sosteneva che le condotte atipiche del delinquente (meno male, anche del genio!) sono condizionate, più ancora da situazioni socioeconomiche o ambientali, dalla ereditarietà. Addirittura da peculiarità anatomiche e fisiologiche. Per cui dovrei credere - ma non è così, ancora di più in tempo di globalizzazione - che chi ha le sue origini al sud è diverso da chi nasce all'ombra del monte Bianco e del Cervino. La storia c'insegna che c'è stato sempre, in ogni epoca, incrocio di popoli e etnie di qua e di là degli oceani. Meno male che le teorie lombrosiane sono state smantellate dalla scienza.
In un momento, caratterizzato dal risveglio del razzismo e dell'antimeridionalismo più becero (con Salvini e la Lega che ci soffiano sopra), l'iniziativa della mostra a Torino non mi sembra nè utile nè opportuna.
Condivido quello che ha dichiarato lo storico Francesco Barbagallo: "Mi chiedo: che ci fa Lombroso al Museo del Cinema? ... Secondo me, in un museo che si chiama 'del cinema' si rischia di ingenerare una confusione tra fiction e realtà".

venerdì 27 settembre 2019

UNA PICCOLA RIFLESSIONE SULLA SENTENZA DELLA CONSULTA E IL FINE VITA

La sentenza della Corte costituzionale, che apre al suicidio assistito, sicuramente è destinata a alimentare polemiche, a creare sconcerto. Lo crea in me che considero la vita un dono di Dio e penso che spetti a lui deciderne inizio e fine. Già, ma la sofferenza, mi si obietterà! Che ci piaccia o meno, essa - dalle origini - fa parte della condizione umana.
Per quanto mi riguarda, non delegherei a nessuno di scrivere "the end" al mio cammino su questa terra. Non sottoscriverei mai un biotestamento. Anche se mi dovessi trovare nelle condizioni più disperate.
Capisco però che il mio modo di pensare è sorretto dalla forza della fede cristiana.
Capisco anche che vivo in uno stato laico, aconfessionale - come dev'essere una democrazia moderna -, nel quale forse i cattolici praticanti non rappresentano neppure la maggioranza della popolazione. Non posso, quindi, imporre i miei principi a chi ha un'altra visione dell'esistenza. A chi non si riconosce nei miei valori religiosi e morali.
Ribadisco quello che ho scritto in una poesia: non mi permetto di giudicare chi, stanco e depresso, getta il bastone all'angolo di una via. Come è accaduto a Dj Fabo, che s'è arreso alle sofferenze fisiche e psicologiche causategli da una patologia diagnosticata irreversibile.

IN CENTO PIAZZE D'ITALIA, MANIFESTAZIONE DEI GIOVANI PER IL CLIMA

Da vecchio uomo di scuola, sono solidale - spiritualmente accanto a loro - con i ragazzi che oggi hanno manifestato in tutta l'Italia chiedendo nuove regole per la tutela dell'ambiente. Checché ne pensino gli scienziati, Zichichi in testa, i quali contestano in un documento che siano in atto mutamenti climatici.
E' sotto gli occhi di tutti che i ghiacciai si stanno sciogliendo, la temperatura aumenta, le stagioni non hanno più regole, il livello dei mari si alza. 
La scienza, a volte, fa a pugni col buonsenso.