lunedì 27 gennaio 2014

GIUSEPPE LIUCCIO, SU POSITANONEWS, HA RECENSITO "HO COLTIVATO SOGNI"

Giuseppe Liuccio
Sono immensamente grato a Giuseppe Liuccio, vecchio caro amico ma soprattutto poeta di grande spessore e di raffinata sensibilità, cantore (e difensore...) infaticabile della sua-nostra terra (la Costa d'Amalfi e il Cilento), della sua storia, delle sue tradizioni, della sua cultura, che - sul giornale online www.Positanonews.it - ha voluto recensire (ved. qui sotto) il mio libro.
Grazie, Peppino, grazie vivissime!
I SOGNI DI SIGISMONDO NASTRI RACCOLTI IN UNA BELLA SILLOGE POETICA. «Tutta la vita ho coltivato sogni / e li porto con me finché ci sono. / Ogni giorno apre il cuore alla speranza: / mi conquista, m’illude / “infinita ombra del vero”». Sembra un bilancio di vita ed è un messaggio/insegnamento quello che Sigismondo Nastri  verga di bianco su fondo rosso nell’ultima di copertina della sua ultima silloge di poesie “HO COLTIVATO SOGNI” (De Luca Editore. Salerno). Non so se la scelta dei colori sia intenzionale o voluta. Certo è che il bianco  dà l’idea della  “ingenuità”, nel  senso di purezza senza furbizia dei tanti, dell’immediatezza  dei sentimenti, specchio dell’anima, e della passione che agita le maree del sangue del  cuore in fibrillazione.   E' un godimento dello spirito la lettura in questo viaggio onirico, che ha un percorso fisico  e geografico oltre che di vita dell’autore. Infatti i sogni di Sigismondo nascono in un habitat, che per sua natura è deputato a covare sogni, come speranze e desideri, Amalfi e la sua Costa, dove è nato, ma di lì prendono il volo per il mondo  con il carico profumato di profumi e colori che sanno di sole, di mare e zagara, come i suoi versi, nati alla soglia  del cielo: «Alla soglia del cielo / trovo pace  e silenzio / quando il sole si cala nel mare / là dove  la costa si fonde / con l’isola azzurra / poi rapida incede la sera / sui rami protesi / come braccia invocanti / e sciamano ombre / su scalinate, terrazze dirupi…».   Ed ha il suo fascino la costa anche d’inverno quando «sul mare grigio quasi piombo fuso / volano nubi gravide di pioggia…. / mentre il vento si schianta contro i vetri / dell’auto che s’impenna  a Capo d’Orso». E allora può capitare che nel cuore del poeta faccia capolino la malinconia, tenera e dolce, ma pur sempre malinconia, per un territorio goduto quasi sempre nella gloria  della luce e che, invece,  gli appare «nella pallida luce del meriggio / d’un giorno vano freddo senza sole».   E al poeta non mancano le emozioni forti che si fanno carnalità di parola poetica in qualsiasi località della “sua” Costiera, come in una notte di luna vissuta a Minori, quando «sull’erba sui fiori sui rami / la notte trasuda rugiada / si veste d’ombre che vanno / per vicoli per scalinate / su a Villamena e alla Riola». Ma il miracolo si ripete con identica intensità emotiva a Furore, dove «scivola dal pianoro agerolese / in vortice infernale il solco fondo / della montagna, delle verdi selve / e chiude ad arco il fiordo nella valle / che l’onda invade con la sua carezza / La strada sale in arditi gironi / tra agavi spinosi, fichi d’India / e vigne al sole d’uva già matura / da portare in cantina e trarne vino / ch’è specchio del furore d’una gente / tosta, tenace, alla fatica adusa».   Ma naturalmente l’attenzione maggiore il poeta la riserva alla città dove è nato, dove ha vissuto gli anni dell’infanzia  e dove ogni vicolo, ogni piazza, ogni angolo della marina gli scatena un ricordo e dove le ombre del passato si vestono di vita, come in un mattino d’aprile: «Il candore pieno / d’un mattino d’aprile / il solito tonfo dell’onda / sugli scogli del porto / un respiro leggero d'alghe / un ramo fiorito di pesco che pende / dal muro / ma non sono solo / e divido con te la gioia del sole /appena nato /il fresco della marina / e questa luce azzurra profonda dei tuoi occhi». E sempre sulla marina, questa volta nel viola del tramonto, quando passano le vele gonfie al ponente…, «una tersa solitudine / io e te e nessun altro / voli bianchi di gabbiani / un forte gracidare sull’acqua / l’odore di scogli  di alghe di salsedine / ...io e te sulla ghiaia / e la mia gioia di tenerti accanto». Per quella della generazione di Sigismondo, che è anche la mia, non sempre i ricordi dell’infanzia sono felici. Quella generazione ha conosciuto la guerra e con la guerra… «un pane nero di  segala dura / soltanto un tozzo bagnato nell’acqua / un filo d’olio due grani d sale…». Scarseggiava il cibo, ma non andava meglio con il resto. «Ricordo gli anni duri della guerra: / mancava il pane, non avevo  scarpe / (anche per quelle c’era contrabbando)». Anche per questo si fa forte, intensa, motivata la sua condanna della guerra: «Sia maledetta la guerra». Ma non è il solo caso in cui il poeta confessa il suo impegno civile, si tratti del resoconto della alluvione di Maiori, dello smottamento che sbriciola le strade, dei fiumiciattoli che esondano, tracimano e seminano morte, come  delle cronache delle miserie umane che  sfregiano la bellezza del territorio, dell’arroganza dei malavitosi, della incapacità dei politici, che con tolleranza e colpevole complicità  consentono affari poco puliti a camorristi e malavitosi d’ogni risma. In questo caso il poeta si fa cupo e registra il suo fallimento, che è lo specchio del fallimento di tutta una generazione: «Ho visto svanire le illusioni / degli anni dell’infanzia, / mi son sentito addosso / la cappa di piombo / della mia mediocrità. / Son come il passero in gabbia / che tende le ali, / s’impiglia tra le maglie/del ferro filato / e lancia un grido d’angoscia / che nessuno comprende».   Ma basta un nonnulla che la vena del poeta si colora di sole. E gli capita soprattutto nelle poesie in vernacolo, perché Sigismondo è un poeta bilingue ed usa con maestria il vernacolo, così ricco di cantabile sonorità, come quando ricorda e canta personaggi del passato che hanno fatto la storia di Amalfi: «Si a stu paese un tramonta / ’o sole / -comme dice  ‘o pruverbio- / ‘o è Gemma / riggina d’ ‘a cucina. / Basta sentì l’addore / d’ ‘e tielle, / d’ ‘e cassuole, pignate, / e d’ ‘e rateglie / ca da ‘a fenesta ncopp’ ‘a Sciulia / se spanne p’ ‘e Ferrare / e mmiez’ ‘a chiazza. / Nun  ‘a vedimmo cchiù / ma Gemma è viva / dint’ ‘o sapore d’ ‘e piatanze / antiche e nove.» Nessuno meglio di me può provare emozioni forti alla lettura di questi versi, perché  Gemma io l’ho conosciuta, ne ho gustato  «‘o vero paraviso d’ ‘o magnà» e quei ricordi hanno ritmato la mia lontana giovinezza amalfitana. E come non commuoversi leggendo “P’ e vicule d’Amalfi” dove «se ‘mpizza e trase ‘o sole / passanno ‘a nu pertuso / ‘a na fenesta aperta» e dove «si saglie truove ‘o  cielo / si scinne arrive a mare». Così come ti commuovi con i versi dedicati al Camposanto di Maiori: «annascuso int’ ‘o verde / d’ ‘e sovere  e d’ ‘e cerze / e ‘o giallo d’ ‘e jeneste… / quanno po’ se fa sera / e l’ammuina d’ ‘o munno / ccà dinto nun ce trase / vide allummà’ lamparelle / a centenare / ca te pare na festa».   E' un bel libro questo di Sigismondo, al quale mi lega amicizia che profuma d’antico e  reciproca profonda stima che ci lega da mezzo secolo o giù di lì. Se è vero, come è vero, che il poeta è un testimone di un'epoca e di un territorio dove è nato e vissuto, di sicuro Sigismondo con questo libro è un sincero innamorato testimone della “sua” Costiera. E mi piacerebbe che questo libro fosse nelle librerie di tutte le  famiglie amalfitane e della costa.  
Giuseppe Liuccio  
g.liuccio@alice.it  

 

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