sabato 28 aprile 2018

IL DIARIO DALLA PRIGIONIA DI GENNARO BRASILETTI


Il mio intervento alla presentazione del Diario dalla prigionia
Mò t’ ‘o ccont’
di Gennaro Brasiletti
 Amalfi – salone Morelli di Palazzo San Benedetto
sabato 21 aprile 2018, ore 19.00


Avere nelle mani questo diario, Mò t' 'o ccont'  di Gennaro Brasiletti (edito da Terra del Sole), sfogliarne le pagine, mi procura una profonda emozione. Le sue testimonianze dalla guerra, dalla prigionia, sono importanti, sono pagine di una storia non ricostruita attraverso le cosiddette fonti, gli atti conservati negli archivi. Questa è una storia scritta dal basso, autentica, vissuta in prima persona. Chiamiamola pure microstoria, per essere più precisi, perché fatta di tanti piccoli, preziosi tasselli, ma essi, messi insieme, organizzati armonicamente, come qui è stato fatto, contribuiscono a comporre la Storia con la “S” maiuscola.
Mi viene la pelle d’oca pensando alla precarietà delle situazioni in cui Brasiletti ha potuto scrivere, ai limiti di tempo e di spazio a disposizione, ai pericoli a cui era esposto. "Anche se ancora pochi di noi sono testimoni – scriveva Mario Rigoni Stern, scrittore ed ex deportato -, questo nostro passato non deve restare nell’oblio perché ora i nostri ventri sono sazi e le case calde, perché abbiamo un letto pulito per dormire e i nostri nipoti sorridono compassionevoli se ci vedono raccogliere e portare alla bocca le briciole che rimangono sulla tovaglia o se mettiamo da parte un pezzo di pane rimasto sulla tavola”.
Il diario può essere un’agenda, un quaderno, una successione di fogli in cui si registrano avvenimenti e impressioni personali. Magari appunti. Credo che tutti ci abbiamo provato, dai tempi della scuola. Ed è una forma di scrittura che viene da lontano, se è vero che si considerano diari i commentari di Senofonte, di Giulio Cesare, le stesse Confessioni di sant’Agostino. Ci sono diari che hanno interesse scientifico, filosofico, artistico, letterario.
Il diario di guerra, di prigionia, è tutt’altra cosa: perché vi è trasposta, come in un cardiogramma, l’esperienza drammatica vissuta. Ce ne sono tanti, che hanno assunto forma di opere di grande interesse storico-letterario: cito quelli di Pietro Jahier, Scipio Slataper, Emilio Lussu, Carlo Emilio Gadda, Ardengo Soffici, dello stesso Benito Mussolini (per quanto riguarda la prima guerra mondiale); e poi di Mario Rigoni Stern, che ho appena ricordato, Carlo Alberto Carocci, Primo Levi, Carlo Levi, Anna Frank (per ciò che riguarda la dittatura fascista, il genocidio perpetrato dalla Germania nazista nei confronti degli Ebrei, la seconda guerra mondiale) 
Sembra dimostrato che scrivere un diario abbia un impatto positivo sulla persona. Che aiuti a superare momenti difficili, regolando le proprie emozioni. Lo sostiene uno psicologo dell’università della California, Matthew Liebermann. Giusto, d’accordo. Ci mancherebbe! Ma una cosa è scrivere un diario in condizioni normali, stando comodamente seduto in poltrona o sul divano, altra cosa in quelle estreme provocate da peripezie, sofferenze, paure.  
L’esperienza della guerra, della prigionia soprattutto, è così traumatica da riuscire a trasformare la scrittura in uno strumento di sopravvivenza. Mettersi ad annotare puntigliosamente quel che avviene giorno per giorno (per Brasiletti è importante anche se piove o c’è il sole o fa freddo) è come avere consapevolezza della propria  esistenza in vita: per trovare rifugio nel pensiero degli affetti familiari, che è sempre denso di nostalgia e rimpianto.
La particolarità del diario, nel caso di Brasiletti,  è che vi annota situazioni, eventi, sensazioni, non  a posteriori, sulla base di quel che gli è rimasto nella mente, ma – come si dice oggi - in tempo reale.  E non c’è neppure bisogno che sia scritto correttamente, mettendo punti e virgole al posto giusto. Perché non si tratta di un esercizio letterario,   ha valore semplicemente di memoria.  Se mai, documento lo diventa col tempo, quando – come ci tocca di fare questa sera - viene consegnato alla storia di un intero paese, dato che la sua vicenda personale si inserisce in una situazione di più vaste proporzioni, tale da coinvolgere la coscienza collettiva.
Tra i diari di guerra, riferiti al secondo conflitto mondiale,  che hanno valenza letteraria –  ne ho citato alcuni -  il più famoso è certamente quello di Anna Frank. La protagonista, una ragazzina di famiglia ebraica, immaginando di scrivere lettere a un'amica, racconta giorno per giorno gli avvenimenti accaduti nell’alloggio segreto di Amsterdam, dove è nascosta insieme alla sua famiglia per sfuggire alle persecuzioni naziste contro gli Ebrei. Due anni di isolamento (dal 1942 al 1944), poi viene scoperta e deportata nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, in Germania. Vi muore il 12 marzo 1945. Il diario, ritrovato e pubblicato a guerra finita, commosse il mondo. Lo commuove ancora.
Lo stesso Mussolini – scusatemi la citazione - scrisse un diario, da combattente, durante la prima guerra mondiale. Poche notazioni, essenziali. Esempio:   “Ore quindici. Raffica di artiglieria austriaca. Crepitio di proiettili. Schianto di rami. Turbine di schegge. Un grosso ramo, stroncato da una granata, si è abbattuto sul mio riparo. Ci sono due feriti nella mia compagnia. Passa un morto del 24° battaglione. Un altro morto degli alpini. Il bombardamento è finito. È durato un’ora. I bersaglieri escono dai ripari. Si canta.” Giusto per completezza d’informazioni, aggiungo che il futuro duce del fascismo rimase ferito in una esercitazione, il 23 febbraio 1917. Operato in un ospedale da campo a Ronchi, non tornò in linea. Trascorse una lunga convalescenza. Dove? qui ad Amalfi.
Bastano poche righe a volte per condensare gli avvenimenti di un’intera giornata. Come Gennaro Brasiletti sia riuscito a farlo, a mio avviso, ha dell’incredibile. Ma lo ha fatto, credo, con piena consapevolezza, già pensando al valore che la sua testimonianza avrebbe avuto in futuro, altrimenti non si sarebbe preoccupato di raccomandare di non censurare il suo scritto.
E’ una vicenda, la sua, che per molti aspetti rassomiglia a quella di Angelino Petraglia, un signore di Piaggine, autore di un testo pubblicato col titolo “Riflessioni sulla seconda guerra mondiale e ricordi di prigionia”. Nella premessa, Petraglia scrive: “Durante il mio internamento in Germania annotavo, di tanto in tanto, su pezzettini di carta, i miei pensieri e le mie impressioni su quanto accadeva intorno a me e sul tenore di vita condotto da noi prigionieri. Come facessi a scrivere quelle note, non lo so, date le continue perquisizioni e l'assidua vigilanza cui eravamo sottoposti.” Più o meno capitava così anche a Gennaro Brasiletti. E non “di tanto in tanto” ma con una cadenza pressoché quotidiana. Solo che, sulla base degli appunti raccolti, Petraglia ci ha costruito un racconto più articolato. Ma sto parlando di una persona con un diverso bagaglio culturale, mentre il nostro confessa che non è un dotto, ha solo la terza classe elementare. Nella società anteguerra, con un livello altissimo di analfabetismo, era già tanto. Ecco perché il suo impegno è ancora più commendevole.
Torno all’argomento di questa mia chiacchierata. Dal 1984 a Pieve Santo Stefano, in Toscana, ad iniziativa di un giornalista, Stefano Tutino, è stato creato un “piccolo museo del diario” dove si raccoglie e conserva memoria. Le storie di persone, persone comuni voglio dire, che hanno lasciato una traccia di sé, trovano accoglienza in questo luogo dove passato e futuro si fondono, dove anime, sensibilità differenti convivono pacificamente.
Anche a Genova, nell’ambito del Dipartimento Scienze della Formazione dell’Università, è stato creato un Archivio della scrittura popolare che  ha lo scopo di raccogliere, catalogare e studiare esempi di scrittura privata: in particolare, epistolari, diari e memorie di emigranti, soldati, prigionieri. In questo caso, con finalità eminentemente scientifiche. Documenti fondamentali per lo studio degli eventi, per la loro ricostruzione. Non occorre neppure che chi scrive un diario di guerra e di prigionia abbia fatto chissà che di straordinario, è importante che ne sia stato testimone attento e attendibile.
Gennaro Brasiletti lo è stato, nella sua semplicità, nel suo candore, nel suo spirito di sopportazione di tante traversie, nel suo appellarsi alla fede: testimone, come dicevo, attento e attendibile.

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