martedì 10 aprile 2018

TOBIA, IL PESCATORE DI AMALFI CHE NON SAPEVA NUOTARE


E’ morto ieri ad Amalfi Tobia (all'anagrafe, Antonio) Moretti, un pescatore vero, autentico. Uno che ha cavalcato il mare della Costiera con sudore, con cocciutaggine, con la passione di fare un lavoro, ereditato dagli avi, che rappresentava sostegno quotidiano per la sua famiglia. Di più: un apostolo del mare. Ne aveva il fisico, le caratteristiche somatiche, lo sguardo proiettato oltre la linea dell'orizzonte, anche se il suo campo d'azione era circoscritto allo specchio d’acqua nel quale si riflette il paesaggio amalfitano.
Pensando in questo momento a lui, e ai ricordi, che riaffiorano sempre più in quest'ultimo tratto del mio cammino, mi torna alla mente la mamma, "Seggilia" (Cecilia), donna buona, generosa, tenace, dallo spiccato animo popolaresco, come non ne esistono più. Qualità che aveva assimilate pari pari, già da ragazzo.
Fece parte dell’equipaggio amalfitano che disputò la prima edizione della Regata delle Repubbliche marinare il 1° luglio 1956 a Pisa, sotto lo sguardo del Capo dello Stato Giovanni Gronchi. Io c’ero, con Gigino de Stefano. Ci facemmo carico di molti aspetti organizzativi della manifestazione. Sul galeone col cavallo alato gareggiarono, insieme con lui, Mario Cretella, Bonaventura Amendola, Alfonso Gambardella, Luigi Consiglio, Franco Moretti, Antonio Gambardella, Andrea Esposito, Umberto Buonocore, Vincenzo Vuolo, Luca Fusco, Ferdinando D'Alessandro. Perdemmo, ma fu ugualmente una giornata di festa.
Tobia aveva mani grosse e nodose per gettare e tirare la rete, per ripararne le smagliature, per spingere la barca con la forza dei remi. Con quella dei suoi muscoli da superman. Una volta me ne occupai da cronista: gli era capitata una piccola disavventura, non so dire se un malore o un incidente. Scoprii che egli era in piena sintonia col mare, lo percorreva quotidianamente, di giorno e di notte, sapeva individuare i posti dov'era più pescoso senza bisogno di bussola e coordinate varie. Col mare, però, sapeva anche litigare, e vincere, come quando dovette combattere a denti stretti con le onde, dalla banchina del Pennello, per salvare barca e remi dalla tempesta.
Era un uomo buono, mite, saggio. Devotissimo del santo protettore, l'apostolo Andrea, pescatore come lui. Tobia amava intensamente il suo lavoro. Unico tallone d'Achille, non aveva mai imparato a nuotare.
© Sigismondo Nastri

QUELL'ANTICA CANAGLIATA NEI MIEI CONFRONTI DELL'ORDINE DEI GIORNALISTI

Quando si è avanti negli anni, e io lo sono, insorgono  problemi di memoria: nel senso che si sviluppano sostanziali modificazioni delle capacità mnestiche. In poche parole, ci si dimentica facilmente delle cose recenti, mentre ritornano alla mente episodi di un passato più o meno lontano. Figuriamoci se suffragati da documenti che vengono fuori dalle tante carte ammucchiate nei faldoni o  nei cassetti.
Ecco che mi ritrovo sottomano la lettera con la quale mi fu negata, anche in seconda istanza, l’iscrizione all’Ordine dei giornalisti nel 1960.
Racconto i fatti, partendo dall'anno precedente: estate o inizio autunno del 1959. Avevo presentato la domanda all’Odg della Campania, insieme a una cartella contenente – come è prassi - articoli firmati, siglati e non firmati (mai restituiti) e due certificati: quelli di Renato Angiolillo, direttore del Tempo, e di Nicola Sergio, direttore di Momento-sera, quotidiani autorevoli dei quali ero corrispondente da Amalfi.  Certificati che riguardavano anche i compensi percepiti. Una corposa documentazione, insomma,  già sottoposta, alcuni giorni prima, all’attenzione del presidente Adriano Falvo, in un incontro a Napoli mediato dal sindaco di Amalfi Francesco Amodio, deputato al Parlamento, del quale ero segretario. Ero tornato felice  per i complimenti ricevuti e l'assicurazione che non ci sarebbero stati problemi. A mio favore s’era prodigato pure Carlo Barbieri, direttore della Tribuna illustrata e presidente dell’Ordine dei giornalisti di Roma, che aveva preso a volermi bene, incoraggiandomi e stimolandomi, dopo che c’eravamo conosciuti nell’edicola di Andrea Savo ad Amalfi.
Stranamente, e non ho mai capito perché, la mia domanda fu respinta, come pure il ricorso, per "insufficienza di titoli", ma con la motivazione che le mie erano…  cronache locali.
Giurai che non ci avrei più riprovato. Dovetti farlo – lo confesso, malvolentieri -   nel 1988 (ventott’anni dopo!), affettuosamente “obbligato” da Umberto Belpedio, che premeva perché venissi contrattualizzato (così avvenne) dal Giornale di Napoli, col quale grazie a lui - capo della redazione di Salerno - già collaboravo, e sollecitato dall’indimenticabile Mimmo Castellano, vecchio e caro amico. Senza quella canagliata del 1960, forse avrei tentato – magari senza riuscirci, ma sarebbe stata colpa mia - la strada del professionismo.
© Sigismondo Nastri


lunedì 9 aprile 2018

LE ARANCE DI MARIETTELLA E LA MARMELLATA DELLA SIGNORA ANDREINA

Ricordo che ad Amalfi esistevano, insieme ai limoneti, degli splendidi aranceti.  Uno, lungo ‘o muro rutto, nella Valle dei Mulini. Quando ero bambino,  mio padre lo prese in fitto, per qualche tempo,  insieme alla casa, posta alla confluenza tra la salita Resinola e la via per S. Lorenzo, di proprietà di un certo Masto Ciccio. Poi quel giardino è scomparso, soffocato dal cemento.  C’erano parecchie piante d’arancio anche nella proprietà della famiglia De Riso, distrutte quando il terreno, fertilissimo, fu espropriato per costruirci un edificio scolastico: l’Istituto professionale per il commercio, dove io, per uno strano scherzo del destino, ho trascorso l’intera vita d’insegnante. Capitava che una tempesta di vento scutuliasse così forte le piante da far cadere a terra una grande quantità di arance. Mariettella (la signora De Riso, noi la chiamavamo così) ce ne regalava intere ceste. Per me, una vera manna. Ne mangiavo a bizzeffe. Ancora oggi la mia alimentazione non può prescindere, a metà mattinata, da una ricca dissetante spremuta  (anche se quelle vendute in negozio o al mercato, e provenienti non so da dove, e forse manipolate geneticamente, trattate con sostanze chimiche, non hanno il gusto e la fragranza di allora. Ma io cerco di acquistarle sempre fresche, con le foglie).
In Costiera non si producono più arance, dicevo, a parte rade piante che fanno capolino tra le pergole dei limoni. Bisogna oltrepassare il valico di Chiunzi e affacciarsi sul versante dell’Agro per ritrovarne coltivazioni più intense. Credo, ma manco sul posto da tantissimo tempo e non ne sono sicuro, che ce ne siano nel podere "Valle dei Mulini" di Gigino Aceto, che quando ero ragazzo chiamavamo 'O cuotto. Ho provato la marmellata prodotta da questa azienda tipica, insieme a  vari liquori che attengono al territorio, e la trovo eccellente.
I ragazzi di oggi sono schizzinosi: di fronte a una spremuta arricciano il naso, preferiscono bibite esotiche costruite in laboratorio. Peccato. Eppure, leggo,  gli agrumi (e se vale per le arance, vale ancor più per i nostri limoni, di cui neppure so fare a meno: meno male che ne ricevo  da Tramonti) sono ricchi di vitamina C, hanno azione antisettica, antinfiammatoria, protettiva nei confronti di cuore e arterie. Se sono arrivato, sostanzialmente sano, a ottantatré anni, lo devo anche alla grande quantità di limoni, arance, mandarini che ho inserito nella mia alimentazione. Lo faccio tuttora.
Ho qui la ricetta per una buona salutare e genuina marmellata. Me la diede, scritta di suo pugno, su carta intestata Hotel dei Cavalieri, la signora Andreina, moglie di Antonio De Luca.  La preparava per la famiglia ed era gradita dagli stessi dell’albergo.
Innanzitutto, gli ingredienti. Un chilo di arance, fresche, non trattate, lavate e asciugate. E ottocento grammi di zucchero.
Si mettono sul fuoco due pentole d’acqua e, appena bolle, si versano le arance nella prima pentola per 6/7 minuti.  Quindi, scolate, si passano nella seconda pentola per altri 5 minuti.
Si scolano di nuovo e si mettono a raffreddare, in acqua fredda. Quindi si tagliano a metà cercando - in un colino - di eliminarne i semi (se ne resta qualcuno non fa niente), senza schiacciarle troppo.  E, soprattutto, ponendo attenzione a raccogliere in una pentola il succo che  viene giù dal colino per mischiarlo allo zucchero.
Le arance, già divise a metà, vanno ulteriormente tagliate (in 4 o più pezzi), unite anch’esse allo zucchero e mescolate in modo che questo risulti un poco ammorbidito.  Dopo di che si mettono sul fuoco a fiamma bassa, per cinque minuti (dall’insorgere del bollore), mescolando spesso e fino in fondo. “Quando la scorza apparirà ben cotta – sottolineava la signora Andreina -, io le passo nel tritacarne con i fori grandi. Non bisogna impressionarsi se è un poco fluida: si indurisce raffreddandosi.” Quel che bisogna evitare è che attacchi sotto o si scurisca troppo.
Rimossa dal fuoco, la marmellata così ottenuta va invasata calda. I vasetti, chiusi ermeticamente, vanno lasciati a raffreddare, capovolti, su un canovaccio.  Una volta raffreddati, sarà necessario accertare se il sottovuoto s’è creato correttamente, premendo al centro del coperchio. I tappi di metallo (evitare il riutilizzo di quelli già usati) devono apparire leggermente incurvati verso l'interno e, premendoci sopra col dito, non si deve sentire clic clac.Se ciò avvenisse è perché  il sottovuoto non è andato a buon fine. Il prodotto ottenuto non è sicuro per la conservazione. Per sicurezza, consiglio di  affidarsi alla tradizionale bollitura dei barattoli, come si usa fare per i pelati o la salsa di pomodoro.    Saremo certi che il prodotto ottenuto potrà conservarsi a lungo.
Tutto questo vale anche per la marmellata di limoni, a parte il fatto che devono essere preventivamente privati della buccia. E che vanno bolliti interi una sola volta per 5 minuti, all’inizio del procedimento.
© Sigismondo Nastri (nuove ricette per 'A cannarizia)  

sabato 31 marzo 2018

BUONA PASQUA

E' Pasqua, la festa più solenne - per i credenti - insieme con il Natale. Pasqua - mi approprio di questa definizione - è "il passaggio da morte a vita per Gesù Cristo e il passaggio a vita nuova per i cristiani, liberati dal peccato con il sacrificio sulla croce e chiamati a risorgere con Gesù". 

Ricordo che in un film di Alessandro Blasetti, "Prima comunione", del 1950, c'era questo motivetto:
"E' Pasqua, è Pasqua, 
noi siam tutti contenti, 
cantiamo ai quattro venti: 
evviva la bontà." 
Una proposta: mettiamoci in cerchio, magari solo idealmente, quanti più ne siamo, tenendoci per mano, e gridiamola ancora - anche a chi non vuol sentire - questa strofetta. Ma, soprattutto, pratichiamola, la bontà. Che è rispetto dell'altro, sensibilità nei confronti dell'altro, in particolare di chi è in condizioni di difficoltà. 
Proviamoci! 
Buona Pasqua!


PASQUA DI SANGUE IN PALESTINA


Quindici morti, forse di più, mille feriti: tutti palestinesi. È il bilancio provvisorio della repressione esercitata da Israele -
con droni, lacrimogeni, proiettili - contro manifestanti disarmati (o, al limite, armati soltanto di pietre). 
È dal 1948, quando fu creato lo stato d'Israele, sulla pelle della popolazione palestinese, che quel territorio, caro ai cristiani perché legato alla nascita, alla vita, alla morte e alla risurrezione di Gesù, è tormentato da guerre, violenze, sopraffazioni. 
Israele è forte, economicamente e militarmente, ha la bomba atomica, gode della protezione Usa. I palestinesi sono figli di nessuno: non hanno diritti, non possono rivendicarne, non meritano pietà. 
Il mondo sta semplicemente a guardare. E noi festeggiamo la Pasqua. Come se niente stesse accadendo.


lunedì 1 gennaio 2018

BUON ANNO 2018

Ormai ci siamo. Stanotte, allo scoccare dell'ora zero, s'è festeggiato il nuovo anno - com'era prevedibile - dando fuoco alla santa Barbara dei fuochi d'artificio: senza rispetto per il prossimo, specialmente quello sofferente, per l'ambiente, i monumenti, cose che non ci appartengono. Senza pietà per i poveri animali domestici che, si sa, non sopportano i botti.
Un altro anno… Uffà! come passa il tempo. Quasi ottantatreenne, mi viene subito da pensare (penso a me stesso) che «‘o tiempo passa e ‘a morte s’avvicina». Ma questo non mi procura affanno. “Estote parati”, ammonisce il Vangelo. Alla chiamata risponderò senza indugio: presente! Intanto, fin quando ce la faccio, continuo a portare avanti il mio impegno: che è quello di scrivere, tenendo vivo il contatto con gli amici su Facebook.
Come sarà il nuovo anno? Mi pongo la domanda a ogni vigilia di San Silvestro. La risposta è che non cambierà niente: i tartassati saranno sempre più tartassati (e non solo per l'aumento annunciato di luce e gas), i furbetti diventeranno più furbi, il cane continuerà “a muzzecà’ ‘o stracciato”, come c’insegna il proverbio.
Il mondo andrà avanti, in un clima di tensione, di guerra-non guerra, messo sotto scacco dalla insipienza del presidente americano, dalla endemica instabilità medio-orientale, dalla conclamata incapacità dell'Europa di avere un ruolo autorevole, credibile nello scacchiere internazionale, soprattutto dalla irresponsabilità di Kim Jong-un, il bambolotto nordcoreano.
Non si fermerà la migrazione di migliaia di disperati, spinti dalla illusione di recuperare nel nostro continente la dignità umana che nei loro paesi, tormentati da lotte tribali, fame, malnutrizione, malattie, gli è negata. Col rischio di finire, se non negli abissi del Mediterraneo, dalla padella nella brace. Abbandonati al loro destino ce li troveremo, nel migliore dei casi, a mendicare davanti a chiese e supermercati. Senza farci scrupolo a parlare di accoglienza, integrazione, anche dopo che il parlamento non ha avuto il coraggio di riconoscere il diritto di cittadinanza ai figli di stranieri nati in Italia. Che pure parlano la nostra lingua, frequentano le nostre scuole.
Il 4 marzo si voterà. Finalmente, verrebbe da esclamare. Anche se, da quel che si riesce a percepire, la governabilità sarà un traguardo difficile da raggiungere senza far ricorso ai soliti inciuci all’italiana.
Penso al dialogo del venditore d’almanacchi col passeggere, di Giacomo Leopardi.
«Venditore: Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
Passeggere: Almanacchi per l'anno nuovo?
Venditore: Si signore.
Passeggere: Credete che sarà felice quest'anno nuovo?
Venditore: Oh illustrissimo si, certo.
Passeggere: Come quest'anno passato?
Venditore: Più più assai.
Passeggere: Come quello di là?
Venditore: Più più, illustrissimo.»
Uno lo spera sempre, malgrado tutto. Sperare, almeno quello, è gratis.
Dio ci scansi da venditori d’almanacchi, biscazzieri, astrologi, maghi, indovini, chiromanti e fattucchieri (politici compresi). Se proprio vogliamo cautelarci, affidiamoci alla consolidata saggezza popolare. Armiamoci di cornetti (ne ho una discreta provvista), teniamo pronta la mano per toccare… ferro, evitiamo chi porta jella (tanto glielo si legge in viso). Ammesso che serva. Considerando, comunque, questi gesti alla stregua di un gioco, di un puro e semplice divertimento.
“Non è vero ma ci credo” è il titolo di una bella commedia di Peppino De Filippo, che ha come protagonista il commendator Gervasio Savastano, uomo perseguitato dalla superstizione. Nonostante gli scongiuri di rito, tutto sembra che vada contro di lui: i venerdì, i gatti neri e quello jettatore patentato del ragionier Malvurio, suo dipendente. Il povero Savastano, non sapendo più cosa fare, licenzia Malvurio e lo sostituisce con Sammaria, che, avendo la gobba, promette ogni bene e fortuna. Infatti basta guardarla e gli affari ripartono a gonfie vele. Fino a quando il diavolo, come si usa dire, non ci mette lo zampino. Lo ‘scartellato’ confessa al commendatore che s’è innamorato della figlia Rosina, provocandogli un incubo terribile: che i suoi nipotini possano nascere con la gobba.
A scanso di equivoci, dichiaro che non sono superstizioso. Ma non mi sento di dare torto a Goethe, per il quale «la superstizione è la poesia della vita».
Un’antica filastrocca napoletana, della quale mi sono appropriato, recita così: «Aglie, fravaglie, fattura ca nun quaglia! / Corna e bicorna, cap’ alice e capa d’aglio. / Uocchie, maluocchie e furtecielle all’uocchie: / schiatta la ‘mmìria e crepano ‘e maluocchie. / Sciò, sciò, ciuccevé! / Ascite uocchie sicche, ca j’ ve ne caccio c’ ‘o ‘ncienzo!».
E’ ovvio che in casa un po' di fumo d'incenso lo spargerò, allo scoccare del 2018 e, se qualcuno me ne chiederà il motivo, risponderò che è solo per... profumare gli ambienti.
Buon anno!
© Sigismondo Nastri

mercoledì 9 agosto 2017

VENERDI' 11 AGOSTO S'INAUGURA A RAVELLO LA MOSTRA "CAMPI SCONFINATI" DI GIUSEPPE PALERMO

Col titolo "Campi sconfinati" si aprirà venerdì 11 agosto alle ore 19, nella chiesa di S.Giovanni del Toro a Ravello, la mostra di Giuseppe Palermo, che nasce sicuramente dalla lunga esperienza dell’artista maturata nel campo della lavorazione della ceramica- Tuttavia,  con l’irriverenza giocosa che lo contraddistingue, in queste nuove opere egli tende al paradosso di celebrare la ceramica senza ricorrere all’ausilio della stessa. Dodici tele di grandi dimensioni riproducono ad olio le decorazione di altrettante 12 storiche mattonelle dell’antica tradizione vietrese provenienti da collezioni private. Grandi dipinti ad olio che  trasformano minute porzioni di decorazione nel soggetto pittorico stesso, che trasformano il reale in immaginario. “In questo suo inedito percorso - afferma il curatore della mostra, Claudio Andreoli -,  Giuseppe Palermo rinuncia alle tecniche e ai materiali tradizionali che hanno costruito la storia artistica della Costa d’Amalfi e indaga, con un salto di scala, la distanza tra la ceramica stessa e il nostro ‘consueto’ modo di viverla. La pittura di per sé ha il potere di trasformare ogni elemento che ci circonda in elemento pittorico. L’artista in questa occasione  si spinge oltre ‘zoomando’ la quotidianità e l’irrilevante, trasformando la pittura in pittura, il dipingere in dipingere. I piccoli ‘campi’ di colore delimitati dalle ridottissime dimensioni della mattonella e dal pennello veloce dell'artigiano diventano in questo caso sconfinati ‘campi’ di colore. Quello che prima era un segno filiforme, millimetrico, ora si trasforma in territorio pittorico”.
Giuseppe Palermo nasce e cresce immerso nelle profonde suggestioni paesaggistiche e culturali della Costiera amalfitana ma vive e lavora a Roma dove espone in alcune gallerie della città (Galleria il Sole Arte Contemporanea). Si caratterizza per un  percorso artistico  poliedrico che spazia  tra la sperimentazione dei materiali al gioco delle tecniche pittoriche,  passando tra la pittura e la scultura e focalizzandosi soprattutto sulla tradizione artigianale costiera legata alla ceramica. L’artista si è approcciato a quest’ultimo ambito con lo spirito creativo ed eclettico che lo contraddistingue dando vita ad uno stile del tutto personale in cui coesistono manualità e immaginazione, visone estetica astratta e concettuale.
“Varcare il contorno dell’immagine nella sua compiuta trascrizione di figure che chiamano in causa lo stile, evidente, soprattutto, nel reiterato ricorso ai colori della tradizione e farsi partecipe della composizione di un decoro per moduli - scrive Massimo Bignardi nel catalogo -  è il punto sul quale ha insistito Giuseppe: lo ha fatto evitando i processi tecnici offerti dalle pratiche digitali, l’ingrandimento a dismisura dell’immagine prelevando, meccanicamente, piccoli brani, dettagli, cifre quasi irriconoscibili. Lo ha fatto, invece, servendosi della pittura, della sua capacità di accogliere l’incertezza del pennello, il caso e, dunque, la sbavatura, l’irregolarità della linea, insomma quel suo dettare il rapporto con il bianco del fondo e quindi i ritmi con i quali misurare le distanze tra forme e figure. Ossia di scendere negli anfratti bianchi degli smalti ceramici che si incuneano nell’intreccio di segni lineari o di macchie, che l’artiere affidava alla punta del pennello o al suo denso corpo di setola o, anche, alla spugnetta, di color ‘blu stampa’ e di giallo che esplode in superficie come le stelle nella notte di Arles. Il suo è l’andare, con un passo accelerato, nel corpo della pittura, nel suo farsi esperienza di un modo di relazionarsi al mondo delle cose, accogliendone la temporanea esistenza di materia e di corpo, per subito varcare i territori dell’immagine e quindi della forma. Il formato delle opere che insiste sul quadrato, almeno lo è stato per le prime, la dimensione scelta dell’ingrandimento fondata sul rapporto 1:2 ci fa intendere come l’esperienza sia stata filtrata da una riflessione sui rapporti, alla luce di una riflessione sulla capacità della pittura di farsi medium di una necessità d’identità esistenziale. Voglio dire che essa si fa adesione ad un modo di sentire il territorio ‘sociale’ come campo della propria creatività e, al tempo stesso, esercizio che dell’immaginario ne fa strumento di conoscenza”.