martedì 5 novembre 2013

IN MEMORIA DI PEPPINO DE LUCA




Amalfi, 5 novembre 2013
in Cattedrale


“Coloro che ci hanno lasciati – scrive sant’Agostinonon sono degli assenti, sono degli invisibili; tengono i loro occhi pieni di gloria fissi nei nostri pieni di lacrime”. Il Credo che abbiamo recitato in coro, durante la celebrazione eucaristica  – professione della nostra fede in Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo – culmina nella proclamazione della risurrezione dei morti alla fine dei tempi, e nella vita eterna. C’è, dunque, una speranza d’immortalità che la fede ci trasmette, che ha il suo fondamento nella resurrezione di Gesù Cristo e nella sua ascesa al cielo, ed è a quella che vogliamo aggrapparci con tutte le nostre forze. “Ai tuoi fedeli, Signore –  ci ricorda il Canone dei defunti - , la vita non è tolta, ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata una abitazione eterna nel cielo".

Mi rendo conto che, davanti alla morte, l'atteggiamento più giusto sarebbe il silenzio. Un silenzio, però, carico di parole da ascoltare. Non parole gettate al vento, ma, insisto, le parole della fede che noi professiamo. Ecco perché abbiamo voluto onorare Peppino De Luca raccogliendoci in preghiera davanti all’altare del Signore. In questa cattedrale a lui cara, che lo ha visto crescere, bambino, ragazzo, uomo, sotto lo sguardo amorevole dell'apostolo Andrea,  per il quale, finché ha potuto, egli ha speso il suo tempo come presidente del comitato dei festeggiamenti patronali. Un impegno che, per lui, era un atto devozionale.

Torno al discorso di prima. Quello del silenzio che parla: un silenzio carico di parole da ascoltare. Sono le parole della fede, che ci avvicinano a Dio. Avrei preferito perciò tacere, racchiudermi in meditazione, richiamare alla mente tutti gli episodi, i fotogrammi di  un’amicizia che dura da più di settant’anni.  Comprendo però di non poter fare a meno, in questa circostanza, di portare la mia testimonianza. Anche a rischio che la parola detta  si sgretoli a contatto del dolore e sfoci in lacrime. 
A Peppino mi legano ricordi che non potranno essere sepolti sotto una gelida lastra di marmo. E se, chiuso in quella bara, egli li porta con sé, oltre la porta che apre all’eternità, a me – e non solo a me: alla moglie, ai figli, ai parenti, agli amici, a quanti lo stimavano e gli volevano bene – rimane ciò che egli ha rappresentato in termini di testimonianza, di coerenza, di esempio (in ambito domestico, nel lavoro, nelle relazioni sociali), di sentimenti.

Nel manifesto che ne annunciava la morte, ieri, la famiglia, pur nell'angoscia del terribile momento, ha voluto ringraziare il Signore per averglielo dato. Peppino - o don Peppe, come tanti lo chiamavano - era veramente un dono: per l'intelligenza, le capacità manageriali. Per la lungimiranza dimostrata quando - con i fratelli - aveva trasferito l’attività paterna da Amalfi a Salerno, perché lo imponevano le leggi del mercato; quando  ha dato impulso al settore cartotecnico; quando ha cercato di trovare spazio, col suo prodotto, oltre i confini nazionali. Era uno che sapeva guardare molto più avanti degli altri. Sono, per fortuna, gli stessi tratti che caratterizzano i suoi figliuoli.  Mi viene da pensare perciò alla parabola del Seminatore: Il seme cadde nel buon terreno soffice, arato, mondato, concimato, poi germogliò e crebbe rigoglioso
Come si sarebbe potuto, mi domando, non voler bene a un uomo così? Come si fa a non volergliene ancora ora?

Peppino aveva delle qualità peculiari che desidero sottolineare: l’ottimismo, pur nelle difficoltà; l’esuberanza, la propensione allo scherzo, alla battuta, al divertissement, inteso nel senso più genuino, quando era libero dal lavoro; e, poi, la piena disponibilità nei confronti degli altri. Sempre e comunque. Di chiunque gli si rivolgesse per un consiglio, per un aiuto.  Pur assillato dalle sue responsabilità d’imprenditore, trovava sempre il modo di dedicarsi agli amici, aprendosi a loro con  la simpatia e l’animo del fanciullo.

Questo era, per me, Peppino De Luca col quale ho condiviso tante giornate, tante ore. Presumo perciò di averlo conosciuto bene.
Ma non era soltanto un imprenditore di successo. Era un appassionato cultore di arte, competente e attento, zelante raccoglitore di patrie memorie. In lui c’era uno sviscerato amore per il bello: una particolare sensibilità, rafforzata dall’attaccamento alla propria terra, che gli ha fatto da stimolo nel collezionare stampe antiche, reperite in lunghi giri per le botteghe d’antiquariato di mezza Europa (a volte ho viaggiato con lui), e dipinti dei “costaioli” e degli altri pittori che hanno attraversato Salerno e la sua provincia, soprattutto la Costiera amalfitana. Questo ha evitato la dispersione e la fuga di testimonianze vive e concrete che fanno parte della storia, della tradizione, della cultura del territorio. “A lui – mi ha scritto ieri il professore Massimo Bignardidobbiamo il coraggio di aver salvato una pagina della storia dell’arte non solo salernitana, meridionale, bensì nazionale: don Peppe ha costruito un patrimonio affinché non vadano perdute le nostre radici”.
Ecco perché gli dobbiamo serbare perenne gratitudine.

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