mercoledì 16 luglio 2014

IL MIO (LUNGO) INTERVENTO ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO "LE TARANTELLE DELLA VITA"



Amalfi, sala della Biblioteca comunale
Martedì, 15 luglio 2014, ore 17.30
Il mio intervento alla presentazione del libro
“Le tarantelle della vita”
a cura di Ermelinda e Rita Di Lieto
e Mariella Buonocore

Solo ora che l'ho trascritto mi accorgo che il mio intervento è  lunghissimo. Ho parlato per chissà quanto tempo, a briglie sciolte, e non me ne sono neppure reso conto.  Il pubblico, composto da persone che mi vogliono bene, ha subìto senza fiatare, spero che si sia anche divertito. In ogni caso, chiedo scusa. Prometto che non lo farò più (ma non credo che mi capiterà un'altra occasione per parlare della "mia" Valle dei Mulini, com'era una volta, come io la rimpiango). 

Ho avuto parecchi dubbi su come impostare il mio intervento. Ci ho pensato e ho deciso di farlo nel modo meno rituale: integrando quello che c’è nel libro con i miei ricordi personali. Se non siete d’accordo fatemi un cenno e cambierò registro. E se vi stancate di ascoltarmi, fatemi un cenno e smetterò. Di cose da raccontare ne ho tante.
“Le tarantelle della vita” lo giudico un libro importante, da proporre soprattutto ai ragazzi, perché “facciano memoria” Un’espressione – fare memoria – che vuol dire non solo conoscere il passato, comprenderlo, ma trasformarlo in un passato che duri. Cioè, organizzare i ricordi individuali affinché diventino memoria collettiva. A Ermelinda e Rita Di Lieto, che se ne sono fatte carico, insieme con Mariella Buonocore e un gruppo di valide collaboratrici, esprimo il più vivo apprezzamento, il più sincero compiacimento.
“Fare memoria di un evento – scriveva Papa Francesco, l’11 ottobre scorso, in una lettera al Rabbino capo di Roma – non significa semplicemente averne un ricordo; significa anche e soprattutto sforzarci di comprendere qual è il messaggio che esso rappresenta per il nostro oggi, così che la memoria del passato possa insegnare al presente e divenire luce che illumina la strada del futuro”.
E’ un messaggio importante, quello di Bergoglio,  in un’epoca, la nostra, in cui si tende alla perdita del senso e del valore della memoria, non soltanto perché la vita scorre più velocemente, è più complessa, ma perché gli eventi, che andrebbero sottratti all’oblio, si affollano nella mente, si sovrappongono per poi dissolversi come  le immagini che scorrono davanti ai nostri occhi sullo schermo televisivo. 
In una vecchia relazione di Giannino Piana, teologo e docente di etica, leggo che “il ritmo della vita sempre più accelerato rende più difficile il rapporto con il passato, anche con il passato prossimo. Il risultato è l'insignificanza del passato, che ha, ad esempio, gravi conseguenze sulla qualità di vita degli anziani, considerati portatori dell'esperienza del passato e quindi sempre più inutili. Una conseguenza è anche le crescente incomunicabilità tra generazioni dello stesso mondo giovanile, data l'estrema rapidità con cui si consumano le esperienze. Cresce la difficoltà a pensare l'avvenimento di oggi come una derivazione almeno parziale di ieri. E' l'espropriazione delle coordinate spaziali e temporali.”
Giovanni Camelia, Ermelinda e Rita Di Lieto, io, Mariella Buonocore
Diventa fondamentale, perciò, il recupero dei ricordi individuali dall’archivio della memoria, dove si depositano fin dalla prima infanzia emozioni, situazioni, avvenimenti, facce, corpi, immagini, suoni, profumi. Recuperarli significa non solo “rivisitare” il proprio vissuto. Significa capire che cosa eravamo, da dove proveniamo. E significa, ancora, adoperarsi per la conservazione della nostra identità, storica e culturale, individuale e collettiva. L’identità, vale a dire, della comunità di appartenenza.
Lo scopo del progetto CRIAR (sigla che riassume cinque concetti: Comunicare, Riconoscere, Intervenire, Apprendere, Reiventare), che è alla base del lavoro, è appunto quello della raccolta della memoria, del ricordo, di piccole e grandi storie, del patrimonio che sopravvive attraverso la scrittura e la narrazione orale: storie volte a spiegarci e a ricordarci i fatti stessi. In sintesi, a fare la storia. Con “Le tarantelle della vita” mi sembra che l’intento sia stato raggiunto.
Mi viene voglia di collegare questa iniziativa a un’altra realizzata nel 1984 a Pieve Stato Stefano, in Toscana, da Saverio Tutino, un giornalista del Tempo, che ebbi modo di conoscere e di apprezzare: la creazione di un “Archivio diaristico” dove man mano sono stati raccolti una quantità enorme – sei o settemila, pari a milioni di pagine – di manoscritti:  diari, testimonianze, lettere, non di personaggi famosi, ma di gente comune. Un’operazione che viene definita  il tentativo tenace di opporre resistenza alla dimenticanza, in una battaglia disperata tra poche migliaia di sopravvissuti contro milioni di persone di cui, purtroppo, non sapremo mai nulla.
La memoria è caduca, si esaurisce nel percorso di vita dell’essere umano, se non è supportata dalla scrittura. Meglio ancora, dalla narrazione orale, impressa sul nastro magnetico di un registratore. A me è capitato di raccogliere testimonianze, che purtroppo sono andate perdute. Quelle dell’avvocato Serafino Anastasio mi riempirono, in età giovanile, pagine di appunti, che sono andate perdute. Quella della signora Fedelina Confalone, la mamma dell’onorevole Amodio, registrata su nastro, la regalai al figlio quando lei morì. Devo avere ancora, tra le mie cose, la registrazione di una lunga chiacchierata con la signora Maria Di Bianco e quella (sia pure incompleta) con Carlino Rumolo, forse il più anziano abitante della costiera con i suoi 103 anni, che contengono notizie importanti su riti, tradizioni, personaggi della vecchia Maiori.
Se questo progetto CRIAR fosse partito vent’anni fa, si sarebbe potuto ricostruire più compiutamente la storia di Amalfi e della costiera dell’intero novecento, attraverso la voce di chi aveva attraversato larga parte del secolo, ne era stato testimone diretto. In qualche caso, addirittura protagonista. Quale modo migliore di ricostruirne la storia, più e meglio di come si può fare consultando documenti “ufficiali” negli archivi pubblici?
Invece si è costretti, a volte, a recuperarne traccia in modo indiretto, attraverso figli o nipoti.
Prima che mi sfugga, devo sottolineare il significato e il valore della duplice dedica del libro.  A Francesca Mansi, che un assurdo destino, spezzandone i sogni, le speranze, l’esuberanza, ha strappato all’affetto di chi le voleva bene. A Francesca che vive, e vivrà, nel nostro ricordo. E a Ezio Falcone, che nella memoria del territorio  ha scavato, con l’intelligenza, la passione, il coraggio che lo caratterizzavano, per le sue ricerche in campo enogastronomico. Non per autocompiacimento, ma per valorizzare – come è avvenuto – una risorsa di valore inestimabile,  che prima di lui era rimasta pressoché inesplorata. Albergatori e ristoratori gli dovrebbero erigere un monumento…
Io – ne ho fatto cenno all’inizio – non andrò ad analizzare, uno per uno, i tanti capitoli de “Le tarantelle della vita”, titolo tratto dal racconto di Margherita Magnolia. “Tarantelle” nel senso di vite movimentate, travagliate, piene di problemi, di ansie, di speranze, di aspettative realizzate o tradottesi in amare delusioni. Non voglio togliere ai lettori il piacere della lettura, della scoperta. 

Non posso nascondere, però, la mia commozione quando leggo le pagine che descrivono la topografia, l’ambiente, la vita nella Valle dei Mulini. Ci sono nato, ci sono rimasto per oltre trent’anni. Ci ho lavorato fino al 1997, l’anno del pensionamento. Dalla mia scuola, l’istituto professionale per il commercio, vedevo, alzando appena la testa, la mia casa, all’ultimo piano del palazzo Anastasio, con la finestra dalla quale, da ragazzo, assistevo al rito pasquale del maiale ammazzato e sezionato nel sottostante giardino di Michele De Riso. Il giardino di Mariettella, come dicevamo noi. Per un piacere sadico? Forse. Ma soprattutto perché sapevamo che di li a poco ci sarebbe arrivato un bel vassoio con qualche bistecca, fegatini, un pezzo di sangue raffermo che, soffritto, avrebbe fatto da condimento agli spaghetti.  Allora, tra vicini di casa, esisteva un rapporto di solidale amicizia, forte e intenso. Il giardino di Mariettella: lo chiamavamo così perché allora la società rurale era matriarcale. Quando si voleva indicare un nucleo familiare ci si riferiva per lo più, magari adoperando il soprannome, alla padrona di casa.
La signorina Maria Maiorino ci ha restituito un “ritratto” preciso, quanto colorito, della Valle dei Mulini. Aggiungo una cosa. Ai miei tempi – tenete conto che mi avvio agli ottant’anni – Amalfi si divideva in due parti: ‘a via ‘e coppa e ‘a via ‘e vascio. Il confine era al largo Spirito Santo. Oltrepassato l’arco di San Giuseppe, quello che rimaneva, credo, di una chiesa, dove le pareti erano ancora affrescate, iniziava la viarella che conduceva alla Cartera ‘ranne (la cartiera grande): uno slargo con tre alberi al centro, ‘o fondo d’ ‘o Cuotto (oggi proprietà di Gigino Aceto) e l’edificio massiccio della saponera sulla sinistra (sulla facciata, la scritta “Fabbrica saponi Amalfi”), la cartiera Amatruda dirimpetto. E un sentiero che conduceva alla Selva, il bosco fitto a lato del torrente, dover noi andavano a cercare fragoline, a cogliere bacche di mortella, sòvere pelose (corbezzoli).
Amalfi, ho detto, si divideva in due. Attraversato l’arco di san Giuseppe, il torrente Canneto si apriva alla vista, ricco d’acqua, fiancheggiato sulla destra dalla stradina, nella quale era intenso il via vai di trasportatori: cartaccia, balle di carta, ma anche barili di vino, fascine per i panifici.  Venivano da Scala, Pontone, oppure da Pogerola. Il forno di Gennarino Muoio era all’angolo del palazzo, ai piedi della scalinata (salita Lauro) che porta a san Lorenzo. Sulla sinistra, la ghiacciera di  Nicola Milano, raggiungibile attraverso un ponticello. Sul lato destro della scalinata, la fontana col suo getto continuo d’acqua fresca del Ceraso. Ricordo ancora gli abitanti di questa salita (spesso conosciuti per i soprannomi, più che per i cognomi): Capo ‘e Fierro (di cognome, Nastro: non mio parente); Giovanni Torre, Fedele Criscuolo, Michele Sacco, Nannina ‘a Zellosa (sposata Gambardella. Donna buona e gentile, così chiamata per via della parrucca: si era alquanto ingenerosi a quel tempo), Dommineco ‘o Cafettiere; Salvatore ‘o Bidello; ‘O Masteciello; la famiglia Rosabianca, Matalena ‘a Conciatiane (Amuro). Nei pressi della chiesetta di san Lorenzo, Michele Bottone (‘o lattaro), la famiglia Cipresso, le sorelle Sacco, che facevano ‘e cusetore (cioè le sarte).
Proseguendo invece lungo il fiume, sotto l’arco della Faenza, dove s’incontrava una bella cascata, c’era, sulla destra, l’accesso alle abitazioni del pittoresco complesso edilizio, poi denominato Quartiere arabo. Un ponte, subito dopo l’arco, collegava la stradina alla scalinata per San Basilio e Pogerola (che allora non aveva strada rotabile: ci si poteva andare attraverso la salita del Cieco, da qui, e attraversando il bosco cui si accedeva, più avanti, dalla salita dei Morti). Un altro ponticello portava alla cartiera Marino. Ma serviva anche per raggiungere la casa della famiglia Dommeneciello Amendola e la villa Lara, che noi conoscevamo come Signora Olandese. (A proposito di questa villa c’è da dire una cosa: era stata per un certo tempo in vendita, senza che si trovassero acquirenti. Si diceva che fosse “abitata” dall’aùria, che ci fosse cioè un fantasma. La gentildonna venuta dall’Olanda l’acquistò a un prezzo molto basso. Poi si scoprì che i riflessi di luce che vi si intravedevano di notte, attraverso le finestre, erano causati da uno specchio).
Dopo il Carcere (trasferito qui in seguito all’evasione di due detenuti: prima era sotto l’atrio del duomo, dov’è ora un ristorante), a destra c’era via Resinola (non so dire se ha conservato questo nome). Vi si incontravano, superato il portone del carcere – comune alle abitazioni di Matteo Pistilli, che viveva con la mamma Maria ‘e fasulo, e di  Tatore ‘o lavannaro – , le abitazioni di Vincenzo Falcone, Girolamo Taiani (‘o ‘lettricista), Gennaro Maiorino, Adolfo Amatruda, proprietario di cartiera, Antonio Taiani (che giocava a calcio nella squadra di Amalfi). 
Sotto il carcere, lo scantinato era utilizzato come macello. Noi ragazzi, dalla strada, assistevamo da dietro le grate al cruento spettacolo della macellazione. E ci divertivamo pure, indirizzando alle povere bestie una canzoncina che cominciava con questi versi: "Vaccarella piccirella / 'o vì' lloco 'o sangue tuo".  Erano i tempi duri della guerra e dell'immediato dopoguerra. La carne era riservata, ovviamente, alle famiglie facoltose. Salvo quando si ammazzava un animale piuttosto malandato: in questo caso si trattava di "bassa macellazione" e la vendita avveniva a prezzo scontato. Molti, che soffrivano di anemia, si recavano al macello col bicchiere in mano. Lo riempivano di sangue ancora caldo e lo mandavano giù in un solo sorso.
In cima alla scalinata, di fronte, la casa di masto Ciccio, dove io ho abitato da piccolo. Avevamo anche un giardino ricco di aranci. ‘O muro rutto s’affacciava sulla proprietà di Pasquale Fraulo (il padre dell’avvocato Gaetano). In quel giardino di aranci poi ci hanno costruito. In alto, il grappolo di case di Mastu Tore (Baldino, di cognome): vi abitavano, se ricordo bene, Gaetano Rispoli, Salvatore Staiano, e per qualche tempo la famiglia Pisacane (quella di Bancariello, per intenderci), che si trasferì in seguito alla Madonna del Rosario.
Alla fine del Muro rutto c’era la casa di Nicola ‘o Pàstene e Maria ‘e Titucco. Più avanti l’accesso al fondo di Peppino ‘o Sìnnaco, un personaggio conosciuto per l’abilità di acconciare i traumi prodotti da slogature, distorsioni, lombaggini. In fondo, la strada continuava, sul lato sinistro, con uno stretto vicoletto dove abitavano il dentista Falcone e, al piano superiore, Angelo e donna Chicchina Confalone,  e poi, una diecina di metri più avanti, Ferdinando e donna Sisina Amatruda. Sia Confalone e Amatruda erano proprietari di rinomate cartiere. L’unica rimasta in attività, grazie all’impegno degli eredi – Luigi Amatruda e, ora, le figlie Teresa e Antonietta – è la cartiera Amatruda, che produce splendida carta a mano, apprezzata in Italia e all’estero.
Sulla destra, dopo l’imponente cancello di Villa Anastasio, inizia la salita per Pontone. C’erano Michele De Riso (Mariettella), Margarita ‘a Sementa, Gigino Balzamo, genero di De Riso. Villa Anastasio ha appartamenti accessibili dall’esterno. Vi abitavano, ai miei tempi, Romolo Rabesco (Brescia), Biagio Staiano, la mia famiglia e, fino a un certo periodo, quella di mio zio Luigi Rispoli, poi trasferitosi al nord.
In tempo di guerra, a Villa Anastasio, s’erano rifugiati il professore Mario Lauria, eminente giurista napoletano, e una principessa russa, sfuggita alla Rivoluzione sovietica. Usciva di sera, sempre vestita di bianco. A me, bambino, incuteva terrore: la identificavo in un fantasma. Invece, l’ho saputo tanti anni dopo, si recava ad incontri amorosi con un personaggio indimenticabile della vecchia Amalfi: Alfonso Mostacciuolo (‘O Mofone). Me lo raccontò lui stesso, una volta, e gli si illuminavano gli occhi.
In cima alle Grade lunghe, che portano alla Madonna del Rosario, a destra c’era il cancello che immetteva proprietà della famiglia Pinto (Tabborio); sulla sinistra, il portone di palazzo Confalone, sormontato dallo stemma nobiliare, dove abitavano Giovanni Imperato, proprietario dell’omonima cartiera, e la famiglia Fraulo (il figlio Silvio fece carriera nella Polizia). Degli altri abitanti, purtroppo, non riesco a ricordare i nomi.
Più avanti, sulla destra, il cancello che immetteva nella proprietà d’ ‘O Russo (per via dei capelli. Mi sfugge il cognome Non era della zona, ma ‘e fora Amalfi) e, a sinistra, la casa dei miei nonni materni: Michele Sarno (‘e Pannone) e Franceschella (che aveva il negozio di frutta e verdura ‘ncopp’ ‘a Sciulia: negozio del quale, negli anni cinquanta, per qualche tempo, ebbi io la gestione). Poi, accanto alla chiesa, la casa di Filippo Milano, il padre di Nicola, altro cartaro famoso. Andando avanti, fino alla Madonna del Rosario “vecchia” (i ruderi dell’antica chiesa distrutta da un’alluvione), si trovavano le famiglie di Melchiorre Celia, Luigi Schiavi, Pasquale Criscuolo (‘e ‘Ntonetta), il padre d’ ‘o Cravunaro, da poco scomparso. E qualche altra che in questo momento mi sfugge. La strada saliva – dopo aver oltrepassato il serbatoio dell’acquedotto – fino alla Centrale elettrica, frequentatissima da noi ragazzi che ci facevamo le scampagnate, con qualche rituale sciavichiello (furtarello di uva e altra frutta). A volte, dalla Ferriera, per un sentiero, salivamo a Pestrofe e di qui a Pontone, per poi scendere dalla Ponta ‘e Priece sulla strada di Ravello.
Continuando, invece, lungo il fiume, dopo il palazzo caratterizzato da una splendida meridiana sulla facciata, quello abitato da Gennaro Maiorino, c’era l’officina di Luigi Manzi, (‘O ferraro). Poi le cartiere: quella di Siano, dove ora abita la famiglia  Bottone, e la cartiera Pagliara, di Nicola Milano, sede del Museo della carta. Dalle parti dello spanditorio, abitavano Antonio e Nanninella Pacileo.
Continuando, dopo le arcate dell’edificio di Umberto Dipino, cartiera e tipografia, sul quale si ergeva l’alta ciminiera crollata alcuni anni fa, c’era, oltre il fiume, la proprietà di Michele e Lauretta Cretella. Poi quella di mio zio, Vincenzo Sarno, denominata ‘o Pasetano. Comincia qui la salita dei Morti, che si raccordava all'epoca ad un sentiero (non so se esiste ancora) che immetteva alla scalinata per Pogerola. Nel bosco esisteva una piazzola con una monumentale carcara, frequentata abitualmente dagli scout nel primo dopoguerra.
Lungo la strada, a lato del fiume, si affacciava la fabbrica di confetti e caramelle di Andrea Pansa. Come è detto in una testimonianza contenuta nel libro, che però si riferisce a una ditta di atranesi, la Monpigar, le caramelle a quel tempo venivano incartate a domicilio (ne tratta Rita Di Lieto, che ha raccolto il racconto di Andreana Sommariva). Il compenso era stabilito in un tot per caramella. Al ritiro si provvedeva a pesare caramella e carta. Alla riconsegna, ovviamente, il peso doveva corrispondere. Spesso il lavoro veniva eseguito sotto lo sguardo dei bambini, ai quali non restava altro che fare l’acquolina in bocca. Erano tempi difficili, quelli!
Nella mia ricostruzione c’è, ovviamente, qualche elemento mancante. Ma con uno sforzo di memoria riuscirò forse a recuperarlo.
Il racconto di Francesca Sarno, figlia di zio Vincenzo, ha un valore storico e documentario notevole. Non tanto per quello che dice si sé, ma per come ricostruisce fatti e situazioni che, se pure la riguardano, hanno valore di memoria collettiva. Così come quello, ridotto all’osso, però, di Flora De Riso, mia coetanea e compagna d’infanzia. Figlia di Mariettella, una persona che ricordo con immensa simpatia. Negli ultimi anni della sua vita facevamo lunghe chiacchierate: lei dalla finestra della sua casa, io dal piazzale della scuola.
Quanto ad Andrea Amendola (‘O Monaco), il Pico della Mirandola di Amalfi, c’è un episodio che ricostruii all’epoca sul giornale, pasrticolarmente significativo. Un’auto, che risultava abbandonata da alcuni giorni in piazza Duomo, destò forti preoccupazioni. Di chi era, perché era stata lasciata lì? Furono chiamati i carabinieri. Si temeva un attentato. Senonché, mentre si stava decidendo il da farsi, addirittura l’intervento degli artificieri dell’esercito, giunse Andrea: questa è la macchina del direttore della banca, disse. E andò a chiamarlo, lì di fronte. Il ragioniere Landi l’aveva lasciata, giusto il tempo di andare a prendere un caffè da Francese, poi se n’era totalmente dimenticato.
E’ chiaro che io, amalfitano, leggendo il libro, mi sono appassionato soprattutto alle cose della mia città.  Come al racconto di Andreana Sommariva, a quelli di Ciro De Vita, Luigi Buonocore (‘O Pannazzaro), scomparso da poco, o di Antonio Giunchiglia (Bomba), affabulatore e dispensatore di ricordi come pochi altri. O di Antonio Cretella, mio cugino acquisito. Senza dimenticare quelli di Teresa Ingenito, specialmente quando si riferiscono alle tradizioni e tirano in ballo il nonno Salvatore, che era un personaggio simpaticissimo, artista eclettico, pastoraro eccelso. Amava gli scherzi. Mi riferì una volta Gaetano Paolillo, vecchio signore amalfitano, suo “complice”, che, insieme ad altri buontemponi, una notte, per gioco, scambiarono e capovolsero le insegne di tutti gli esercizi commerciali del centro di Amalfi. Immagino che casino successe la mattina dopo. Ma tutto si concluse con una grande una risata collettiva. E con un brindisi, forse. Oggi sarebbe finito a denunce, se non proprio a botte.
La testimonianza di Agostina Gambardella, affidata a Linda Ciccone, ci trasmette molti aspetti della vita com’era. Ci dice di quando si comprava a credito, con la libretta. I negozi di alimentari, ad Amalfi, erano quelli di Peppino Verderame (‘O Zivillo) allo Spirito Santo, Alfonso Valentino, in cima a via Pietro Capuano, Assunta ‘e Veneranna, in pieno centro, don Peppe Cavaliere (dint’ ‘E ddoje mure), Torre (un buco, ci potevano stare sì e non due persone, dirimpetto al negozio di tessuti di Alfonso Colonnese), don Andrea ‘e Pittiasso, alla Porta della Marina Piccola. Tittina Ruocco, la sorella del mio vecchio amico Gerardo, ricostruisce avvenimenti  - notevole quello della caduta dell’aereo svedese a Scala – con la puntualità di un consumato cronista. Isabella Capriglione ci parla delle donne praianesi di Vettica Maggiore, della loro abilità nell’arte del ricamo e dell’intrecciare il filo. Ricordo che di Praiano era Rosina, che ad Amalfi, seduta sul muretto dello stradone, era tutta intenta a fare le sue retine. Una volta mi disse che, da ragazza, era stata controfigura di Francesca Bertini in un film girato qui. Nell’ultima scena l’attrice doveva gettarsi, disperata, a mare. Però non sapeva nuotare. Fu Rosina a sostituirsi a lei. Luigi Buonocore è presente nei miei ricordi dell'infanzia, quando lo vedevo asrrampicarsi sulla scalinata per Pontone con la sua mappata di biancheria da vendere. “Il lavatoio domestico” narrato da Ermelinda Di Lieto mi riporta alla mente il tempo in cui facevamo, noi piccoli, il rituale bagno nella “conca” di zinco. Ed era una fatica per le mamme. L’acqua, tirata dalla cisterna, si metteva a bollire per poi miscelarla a quella fredda per portarla alla giusta temperatura. In tempo di guerra, le case posizionate nella parte alta della città, ancora non disponevano di acqua corrente. Quella per bere l’0attingevamo alla fontana pubblica. Mariella Buonocore riferisce dell’usanza di lavarsi il viso, nel giorno dell’Ascensione, con l’acqua messa in un catino con petali di fiori e lasciata fuori per tutta la notte. E’ mun rito che s’è sempre osservata nella mia famiglia. Anche ora, seppure con qualche dimenticanza… Come il rito di benedire la mensa, nel giorno di Pasqua, con l’acqua santa prelevata in chiesa quella stessa mattina. Nella storia di Rosa Fierro, ricostruita da Rita Di Lieto, c’è tutto l’amore e il rimpianto per la propria terra (nel senso più autentico della parola) e per il paradiso perduto di una persona emigrata. Un sentimento che non può riferirsi solo alla sfera personale, ma è collettivo.
A Mariella Buonocore dico che condivido molte cose da lei riferite. Da ragazzo, con mio padre, ho frequentato le frazioni di Amalfi, da Pastena a Tovere. Ho conosciuto molta gente, sono entrato in molte case. Ho attraversato la via Maestra dei Villaggi, ho scalato salite interminabili: Finestre, Monterosso, Montefungione, fino a sott’ ‘e Grotte. Sono anche arrivato ad Agerola, da Tovere, percorrendo via santa Caterina.
La Villa (che impropriamente molti associano a Sophia Loren) la conoscevo prima ancora che l’acquistasse Carlo Ponti. Era di proprietà di un romano.  Si mormorava che la moglie avesse un amante a Ravello. Quando il marito era assente issava una bandiera sulla torre per farglielo sapere.
Mi fa piacere che “Le tarantelle della vita” sia suddiviso in sezioni: la pesca, la guerra, l’acqua, la scuola, eccetera.
L’idea di creare un archivio diaristico anche in Costa d’Amalfi, con la quale si chiude il libro, la giudico estremamente interessante. Faccio mio l’appello ad affidare al Centro di Cultura lettere, diari (significativo quello di Alfonsina Della Mura, molto dettagliato), fotografie,  documenti, che possano aiutare a tenere desta la memoria degli antenati e, insieme, del nostro passato.
© Sigismondo Nastri

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