venerdì 11 luglio 2014

MAIORI, IL MIO INTERVENTO ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO "IO, TROTULA" DI DOROTEA MEMOLI APICELLA



Maiori, Giardini di Palazzo Mezzacapo
Venerdì, 11 luglio 2014, ore 20.00
Il mio intervento alla presentazione del libro
“Io, Trotula”
di Dorotea Memoli Apicella
(Marlin editore)


Ho da fare una confessione. E qualche riflessione.
E’ vero che il mio ruolo è quello di coordinare questo incontro, ma non è un ruolo asettico. Consentitemi, dunque, di esprimere subito il mio pensiero, anche come “provocazione” rivolta ai relatori. Dico meglio: come spunto per la discussione, che ne seguirà.
Comincio con la “confessione”.
Sono un cattivo lettore.
Già a guardarlo, un libro, se supera le cento, centocinquanta pagine, mi viene l’angoscia.
E’ facile che, a un certo punto, lo deposito da qualche parte e non lo riprendo più. In altri casi, comincio a leggerne brani alla rinfusa, magari partendo dall’ultimo capitolo per il gusto di scoprire come va a finire.
E meno male che non sono un appassionato di libri gialli!
Sotto l’aspetto della “corposità”, “Io, Trotula” avrebbe potuto crearmi dei problemi.
Perché le pagine propostemi da leggere erano almeno 345, senza contare note, ricette, appendice, la puntuale postfazione di Vittoria Bonani, presidente di Adorea e già direttrice della Biblioteca provinciale.
Invece – e di questo devo rendere dare doverosamente atto a  Dorotea Memoli Apicella –, la lettura mi ha appassionato subito, sono andato avanti disciplinatamente – e speditamente, credetemi! –  dalla prima all’ultima pagina.
Non per merito mio, ma grazie alla scrittura lineare, agile, moderna, per nulla stancante, dell’autrice.
Da parte mia c’è stata la curiosità – tratto caratteristico che mi riconosco da quando, nel 1951, ho cominciato la mia piccola avventura nel mondo della carta stampata –, che mi spingeva alla scoperta della “magistra” Trotula, assurta quasi a simbolo di quella Scuola Medica Salernitana che, secondo la tradizione, fu fondata da un latino, un greco, un arabo, un ebreo (una sinergia tra culture diverse, auspicabile anche oggi), e che rappresentò per molti secoli – fino a quando Gioacchino Murat, nel 1811, ne decise la chiusura – la più antica e anche una delle più importanti istituzioni dell’Europa occidentale per l’insegnamento della medicina.
Passo rapidamente, per quel che è possibile, a fare le mie considerazioni sul libro.
Io non voglio rubare il mestiere al preside Francesco Criscuolo, letterato attento e perspicace, che lo analizzerà meglio di come son capace io di farlo; e tanto meno a Maria Carla Sorrentino, docente universitaria, apprezzata cultrice delle memorie del nostro territorio – quello salernitano per intenderci –, che conosce a fondo il contesto storico, politico, economico – mi riferisco all’XI secolo – nel quale ha operato Trotula De Ruggiero, circondata e collaborata dalle “mulieres salernitanae”.
Era il periodo in cui “cominciava a delinearsi un processo di progressivo assestamento e l’organizzazione della pratica e della didattica medica”, messo in atto anche – e principalmente mi viene da aggiungere – da Trotula, con particolare riguardo al suo campo specifico di attività: quello di medico, con eccezionali conoscenze in campo ginecologo, ostetrico, dermatologico.
Figuratevi che una volta riuscì a restituire a una giovane, prossima alle nozze, la verginità perduta per una violenza che aveva subita.
Le sue preparazioni cosmetiche, a base vegetale – cito quella antirughe –, non erano indirizzate solo alle donne. Ne beneficiavano anche gli uomini (religiosi inclusi), come evidenzia Dorotea Memoli Apicella.
Con certe erbe – l’erba moly (ruta selvatica) e la trìfera magna – era in grado di placare gli appetiti morbosi dell’uno e dell’altro sesso.
Ma è veramente esistita Trotula De Ruggiero?
E' evidente che, per l’autrice del libro, dubbi non ve ne sono. Tanto da averla resuscitata per farsi rilasciare una lunga intervista, una confessione a tutto campo.
Secondo me, il quesito è irrilevante. Perché “Io, Trotula”, pur ricco di riferimenti a figure, situazioni, avvenimenti tratti dalla storia di Salerno,  non ha la pretesa di essere un saggio storico. E’, dichiaratamente, un romanzo, al quale auguro il migliore successo. Tommaso e Sante Avagliano hanno fiuto, ci azzeccano sempre.
Non mi stupirei se per questo libro si aprisse la strada di una trasposizione sullo schermo. Come accadde per Francesca e Nunziata di Maria Orsini Natale. Glielo auguro di cuore.
Che Trotula sia un personaggio realmente esistito o prodotto dal mito, dalla tradizione, poco importa. Se ne occupino gli addetti ai lavori: topi d’archivio e di biblioteche, storici.
Alla scrittrice la storia serve per inquadrarvi correttamente, coerentemente, il percorso umano e professionale della protagonista.
Basta vedere la quantità di note (sono ben 186) e di riferimenti bibliografici alla fine del volume. Fondamentali, perché ogni vicenda dev’essere riferita al proprio contesto storico, sociale, ambientale.
“Io, Trotula” è, dunque,  un’opera storico-letteraria nella quale fatti realmente accaduti fanno da supporto alla fantasia fertile dell’autrice.
La prima cosa che io vi ho riscontrato – chiedo a Francesco Criscuolo di darmene conferma – è la freschezza del linguaggio, la capacità di farci sentire la medichessa medievale una persona vera, viva, “attuale”, non lontana mille anni dal nostro tempo.
A pagina 182, ad esempio, parlando della sua età, 56 anni, Trotula la definisce “rispettabile al confronto della durata media della vita del mio tempo”. In un altro caso, accenna al mondo “allora conosciuto”. Un discorso che sembra fatto, volutamente, a posteriori.
E’ sempre Trotula a esprimersi in prima persona, ricostruendo fin nei dettagli il suo percorso esistenziale. Tutto di getto, senza fermarsi mai. E’ un monologo ininterrotto, il suo, che assume – a seconda delle situazioni – i tratti di una composizione musicale: moderato, andante, adagio, allegro, vivace, maestoso.  
M. Carla Sorrentino, Io, Dorotea Memoli Apicella, Francesco Criscuolo
E così, davanti agli occhi, come in un film, attraversano il nostro sguardo le immagini dell’infanzia: il primo innamoramento (con Edoardo d’Inghilterra, detto il Confessore, venuto a Salerno nel 1041); il rapporto con la principessa Sighelgaita, divenuta seconda moglie di Roberto il Guiscardo; il proprio matrimonio con il medico famoso, suo maestro, Giovanni Plateario (e la delicata descrizione, in due righe – bella, senza che induca a pruderie – del primo amplesso).
Della lunga carrellata di personaggi che animano le pagine del libro cito, a caso, l’abate Desiderio; Roberto il Guiscardo; Gisulfo; Rodolfo Malacorona e Costantino l’Africano, celebri medici di quel tempo; papa Gregorio VII, esule a Salerno.  Il maestro Pietro Barliario, mago e alchimista, che con le sue maestranze saracene riuscì a costruire in una notte quello che è rimasto famoso come ‘O ponte d’ ‘e diavoli.
E ancora: gli avvenimenti (la transizione, non indolore, dalla dominazione longobarda a quella normanna); i luoghi, che disegnano una topografia, e una toponomastica, ancora attuali del centro antico di Salerno. Alcuni riferimenti ad Amalfi e a Cava de’ Tirreni sono altrettanto precisi e puntuali.
Mi fermo qui. Ho già abbondantemente invaso il campo altrui e me ne scuso. Ora la parola spetta ai relatori, sicuramente più competenti di me nell’analizzare ogni aspetto di questo libro, che consiglio a tutti di leggere.

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