lunedì 18 febbraio 2013

CARLA CAPPONI E I VALORI DELL'ANTIFASCISMO. RICORDO DI UN INCONTRO AVVENUTO A MAIORI NEL 1996


Rovistando tra vecchie carte, l’altra sera, mentre dalla televisione mi arrivavano le canzoni del festival di Sanremo, ho trovato degli appunti raccolti durante una conversazione con Carla Capponi (Roma, 7 dicembre 1921 – Zagarolo, 24 novembre 2000) quando venne a Maiori, nel giugno 1996, per rievocare le vicende della Resistenza. Il ricordo che conservo di lei è quello di una signora dolce, gentile, ben diversa dalla donna dal “carattere estremamente deciso” - come la definiva Paolo Brogi sul Corriere della sera -, vice comandante di una formazione partigiana, capace di compiere  azioni di guerriglia contro i nazifascisti, tali da meritarle la Medaglia d’oro al valor militare. Una signora dolce e gentile, dicevo prima, appassionata di musica.  Il colloquio avvenne tra palazzo Mezzacapo, sede di rappresentanza del comune di Maiori, dove io ero moderatore di quel convegno, e l’albergo Reginna, dove lei ci deliziò con una brillante esecuzione al pianoforte,

La Capponi è rimasta nella storia per la partecipazione all’attentato di via Rasella, a Roma, contro un contingente militare tedesco, il 23 marzo 1944. Lei era consapevole di rischiare la vita, ma non pensò minimamente di  tirarsi indietro, o meglio, come diceva, di sottrarsi al “gesto fatale”.  Del resto non era nuova a operazioni  pericolose.  Basti citare che, nell'ottobre del 1943, per procurarsi un'arma (visto che i suoi compagni  gliela negavano, perché preferivano riservare alle donne funzioni di appoggio), riuscì a sottrarre una pistola a un milite della GNR (Guardia nazionale repubblicana), che si trovava vicino a lei in un autobus superaffollato.

L’occupazione di Roma si trascinava in un clima di violenze, in attesa che gli alleati, sbarcati sulla costa salernitana a settembre, riuscissero a sbaragliare la dura resistenza delle truppe naziste e a raggiungere la capitale. In Campania, da dove esse erano state cacciate, avevano lasciato una lunga scia di sangue:  milleseicento civili barbaramente trucidati. In ogni luogo, da dove erano stati respinti, i tedeschi si erano resi protagonisti di feroci vendette.

Ma torno all’episodio di via Rasella. Un gruppo di partigiani, guidato da Rosario Bentivegna, giovane studente di medicina, che poi fu suo compagno nella vita, aveva notato che una colonna di SS transitava di lì quotidianamente, sempre alla stessa ora. Avvenne anche quel giorno: una compagnia del I battaglione del Polizeiregiment Bozen, composta da 156 uomini, in assetto di guerra.   L'attacco ebbe inizio con lo scoppio di una bomba al tritolo trasportata in un carretto della nettezza urbana, fatta brillare dallo stesso Bentivegna, comandante del GAP (Gruppo d’azione patriottica)  “Carlo Pisacane”, trasformatosi in netturbino.  Intanto altri dieci gappisti coprivano l’azione col lancio di bombe a mano. Carla Capponi era lì, con un impermeabile sotto braccio che passò subito  a lui: gli servì  per coprire l’uniforme da spazzino dopo aver dato fuoco alla miccia.  Lo scoppio causò la morte di 32 soldati tedeschi. Più di cento i feriti. Persero la vita anche un uomo che un bambino che si trovarono per caso a transitare per quella strada.

La reazione tedesca fu di una spietatezza inaudita, non solo per gli spari, che durarono più di un’ora, e devastarono finestre, balconi, persino i mobili all’interno degli appartamenti, ma per il saccheggio compiuto in serata in tutte le case di via Rasella. Il giorno dopo fu ordinata la rappresaglia, che condusse alla morte 320 uomini: duecento, prelevati dal terzo braccio del carcere di Regina Coeli, controllato dall’autorità tedesca; cinquanta erano funzionari politici che dipendevano dalla polizia fascista; settanta, scelti tra le persone arrestate dopo l’attentato, ma che niente avevano a che fare con esso. Furono condotti alle Fosse Ardeatine e barbaramente ammazzati.

“Avevo bisogno – ha scritto poi in un libro la Capponi - di ritrovare tutte le ragioni che mi portavano a compiere quell’attacco. Ripensai ai bombardamenti di san Lorenzo, a quella guerra ingiusta e terribile, alle voci dei bambini del brefotrofio imprigionati dal crollo, allo strazio delle distruzioni che si vedevano ovunque e di cui avevamo notizia ogni giorno, ai nostri compagni fucilati, torturati in Via Tasso, a tutti i deportati, agli ebrei nei lager, a tutti i paesi oltralpe sconvolti dalla devastazione. A quanti tra i miei amici erano già morti: sul fronte russo, in Grecia, in Iugoslavia… malgrado questi pensieri il mio animo era distante e nel pensare a quei soldati non riuscivo a provare odio. I miei sentimenti erano come raggelati, sospesi, come se non potessi trovare tutta intera la ragione della mia scelta… ma a poco a poco mi convinsi che non preparavo un agguato a innocenti… recuperai la visione esatta della realtà che stavo vivendo: per tutti coloro che avevano sofferto ed erano morti ingiustamente perseguitati, per loro dovevo battermi.”

Una convinzione alla quale è rimasta sempre fedele, perché quell’azione militare – e le altre che caratterizzarono i gruppi partigiani - “hanno rialzato l’onore del nostro paese”. Il fascismo – sottolineò con me Carla Capponi – non è l’Italia: “l’Italia è un’altra cosa, ha una sua caratteristica che è la solidarietà, l’unione di culture e tradizioni, anche religiose”.

Del resto, contro quel fascismo si era coalizzato tutto il mondo. L’America della grande industria e del capitalismo si era alleata con l’Urss, paese del socialismo reale.

L’antifascismo - insistette Carla Capponi - è un valore che non può essere accantonato. Deve rimanere sempre vivo.  Un valore che va al di là delle differenze: ecco perché è alla base della  Costituzione, nella quale è sancito pure un altro principio fondamentale: "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali" (articolo 11). Avrebbero dovuto aggiungere che rifiuta anche la fabbricazione delle armi. Invece noi abbiamo ripudiato la guerra, ma vendiamo le armi ai paesi che la fanno. Bisognerebbe togliersi questa maschera. Dobbiamo operare affinché questo commercio  si fermi.  “Al di là di quello che avvenne in un momento storico particolare – mi confidò, a conclusione del nostro incontro -, la mia vita è stata tutta dedicata a convincere gli altri a cercare l’unione, le alleanze, la comunicazione, a recuperare il senso del rispetto dell’altrui persona. Questo è il fondamento  dell’idea che ho sempre avuto anche del partito a cui avevo aderito. Un partito che ha creato la democrazia in Italia, non è stato mai violento, non ha mai avuto tentazioni eversive. Noi avevamo vissuto l’esperienza durissima non solo del carcere, durata 15-18 anni, dove molti dei nostri dirigenti avevano passato lungo tempo. Quello che ho fatto, l’ho fatto con estrema convinzione. Da allora, però, questo nostro paese ha compiuto tanti passi avanti. Ha progredito. Ora c’è solidarietà”.

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