lunedì 30 maggio 2016

MEMORIE DI UN (GIORNALISTA) OTTUAGENARIO: UNA SERA IN QUESTURA

La data è bene impressa nella mia mente: 12 marzo 1996. Era di pomeriggio, sul tardi. Cronache del Mezzogiorno aveva la redazione nel Palazzo Edilizia, che si affaccia imponente su piazza Amendola e, dall’altro lato, sul lungomare di Salerno.  Il direttore, Gigi Casciello, mi disse: “Perché non vai a intervistare i Neri per caso, che stanno proprio qui sotto, nel bar Varese? Poi, tornando, visto che hai con te la macchina fotografica, fai qualche fotografia agli extracomunitari, in coda davanti alla Questura per il permesso di soggiorno. Anche su di loro mi scrivi un pezzo”. Scesi, al bar Varese trovai Diego Caravano e Massimo Devitiis. Dopo qualche resistenza, dovuta al fatto che il loro gruppo era legato per contratto a un’agenzia di comunicazione, riuscii a raccogliere qualche dichiarazione interessante e anche  a fotografarli.
Passai, quindi, all’espletamento dell’altro incarico. Sotto i portici della questura c'era una lunga fila di persone, anche donne con bambini in braccio. Appena mi videro cominciarono a lamentarsi: “Ci troviamo da stamattina  qui – mi disse uno, sicuramente africano, che si spiegava abbastanza bene in italiano – e non ce la facciamo più. Ci trattano come bestie”. Non finì di pronunciare queste parole, che gli arrivò un ceffone. Fui lesto a riprendere la scena con la mia Canon. Ma più lesti di me furono coloro che mi sollevarono di peso e mi condussero in questura. Mi chiesero conto di quello scatto, del perché mi trovassi lì. “Sono un giornalista”, risposi. Dovetti dimostrarlo esibendo la tessera dell’Ordine. Non bastò.  Mi “depositarono” in uno stanzino per decidere il da farsi. Volevano che consegnassi l'apparecchio fotografico. “Costa 700 mila lire – obiettai -. Se volete, sequestratelo pure, ma verbalizzatene le ragioni”. No, mi fu replicato, non si poteva, perché io non avevo commesso nessun reato. Ma non mi avrebbero consentito di uscire di là con l’immagine dello schiaffo impressa sul negativo.  Al giornale mi aspettavano, avevo fretta di risolvere la questione. Chiesi di parlare col questore, mi dissero che non era in ufficio e che il vice questore, che io conoscevo bene, era in ferie. Uno, con un fisico da energumeno, mi ammonì: “Non la facciamo parlare con nessuno, qui comandiamo noi”. Mi tornò davanti agli occhi la scritta letta sulla porta, mentre entravo, sollevato in aria come un sacco di patate: “Falchi”. Mi sentivo solo. Passò per il corridoio una persona, un esponente di partito col quale m'ero trovato a fare battaglie politiche insieme negli anni sessanta. Mi salutò con un cenno della mano e, rivolto ai “sequestratori”, disse: “E’ un amico, non gli fate troppo male”. Difatti non fui preso né a calci né a pugni. Ma non mi fu consentito di mettermi in contatto col giornale (come? a quel tempo non eravamo ancora provvisti di telefonini).
Dopo un lungo tira e molla arrivammo a un compromesso. Consegnai solo il rullino, avrebbero provveduto loro a sviluppare le foto e me le avrebbero recapitate in redazione.  Tempo, un’ora. Tranne, ovviamente, quella dello schiaffo al povero immigrato. Furono di parola, puntuali. Ricordo che, appena riferii l'accaduto, corsero in questura a protestare sia il direttore Casciello che Umberto Belpedio, che allora gli dava una mano – mano da maestro, qual è! – a costruire il giornale.
L'articolo sui Neri per caso lo scrissi di getto e uscì il giorno dopo. L'altro episodio l'ho tenuto per me vent'anni. Ne parlo oggi, solo per la storia, la mia piccola storia,  
Aggiungo, per completezza d'informazione, che a distanza di una settimana mi capitò d’incontrare il questore in un noto ristorante dalle parti di Capo d’orso. Era a tavola con due signore. Puntai verso di loro l’obiettivo e subito desistetti, esclamando: “Non vorrei che mi succedesse un altro guaio!”. Mi sentì, si alzò, mi venne incontro. “E’ lei?” domandò. “Sì, sono io. Ma lei come lo sa?”, ribattei. “Guai se non sapessi quello che avviene nel mio ufficio”, commentò. Con una stretta di mano mi porse le sue scuse.
© Sigismondo Nastri

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