giovedì 6 giugno 2013

A PESCA DI TOTANI CON ACHILLE CAMPANILE



 Sul declinare dell’estate del 1951 lo scrittore Achille Campanile venne in vacanza ad Amalfi. A distanza di oltre sessant’anni mi riesce difficile ricordare in quali circostanze lo conoscemmo. Eravamo tre amici: per qualche giorno rinunciammo a star dietro alle ragazze ritenendo che un personaggio di tale levatura meritasse un po’ d’attenzione da parte nostra. Una sera lo invitammo a una battuta di pesca. Si andava a totani. Non si lasciò pregare. La cosa lo stuzzicava molto. Ci recammo alla spiaggia del porto. La barca – un gozzo – era parcheggiata sulla ghiaia. Lentamente, facendola scorrere sulle “falanghe” (gli appositi scivoli di legno), la calammo in acqua, appena oltre la linea della battigia. Montammo a bordo. Filippo, il più esperto tra noi, diede un’ultima spinta e balzò su di corsa. Angelo si mise ai remi. Campanile guardava incantato il paesaggio, pur senza perderci di vista, mentre ci allontanavamo dalla riva.
Achille Campanile
La lampada ad acetilene, accesa a prua, metteva a nudo i fondali col loro tappeto d’alghe. Si vedevano i pesci attraversare rapidi il campo luminoso. Quando ritenemmo che il posto fosse quello giusto, a metà strada tra l’estremità del porto e  la torre dell’hotel Luna, Filippo gettò l’ancora (si fa per dire: era un bel masso legato a una corda). Estraemmo da una borsa i “filaccioni” e li calammo in acqua, srotolando con garbo la matassa, dopo aver applicato agli ami dei pezzi di alici per mimetizzarli. Cominciò l’attesa, col filo trattenuto ben stretto tra indice e pollice, per avvertire ogni sollecitazione proveniente dal basso. Achille Campanile seguiva le operazioni con curiosità. Quando il totano abbocca – gli spiegavamo – dà uno strappo al filo. E’ il momento di tirare su la lenza. Capitò più volte, quella sera. Filippo e Angelo (non sono mai stato un abile pescatore, io) si presero cura di liberare la preda dagli ami. Cercavamo, ogni volta che si riusciva a catturare un totano, di scansare gli spruzzi che ci lanciava in un ultimo e vano tentativo di difesa.
Sul mare soffiava una brezza leggera ma insistente. La barca dondolava ritmicamente, inclinandosi ora da un lato ora dall’altro. Cominciai a sentirmi male e cercavo di non farlo capire. Impresa disperata: avevo lo sguardo stralunato, il volto ancora più pallido di quanto non lo fosse abitualmente. Sporsi il capo oltre la fiancata e vomitai. Superato il momento critico, mi girai verso i compagni d’avventura quasi a voler chiedere scusa, a giustificarmi. M’accorsi che Campanile rideva. “Ma come è possibile – esclamò – che un discendente della più antica repubblica marinara soffra il mal di mare? Racconterò quest’episodio”. E rivolgendosi direttamente a me aggiunse: “Prima o poi ti ritroverai in un mio libro”.

© Sigismondo Nastri (da: Racconti dalla Costa)




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