domenica 26 maggio 2013

LA STORIA DEL NAUFRAGIO DEL CARGO SEAGULL



Maiori, Palazzo Mezzacapo
Sabato, 25 maggio 2013, ore 19.00
Il mio intervento alla presentazione del libro
di Liliana Lanzardo
“Non è il mare il mio nemico -
Il naufragio della Seagull”

Gabriele D’Annunzio, quando venne in Costiera, nel libro degli ospiti dell’albergo che lo ospitava, sintetizzò in un endecasillabo le sue impressioni: “O mare mare mare mare mare!”. Non solo, mi viene da pensare, per lo spettacolo che gli si era parato dinanzi, affacciandosi alla terrazza, ma perché il mare è stato, nel corso dei secoli, l’elenco principale di sviluppo della nostra civiltà, della nostra economia, il motore della nostra storia, vissuta sempre sul mare. I nostri antenati sono stati gli artefici di quella repubblica marinara che ha dominato i traffici nell’alto Medioevo; ha consacrato, nella “Tabula de Amalpha”, le prime e fondamentali norme del diritto marittimo; e, con la bussola e la Rosa dei venti, ha realizzato i primi strumenti per una navigazione sicura.
Pur allevato in questo contesto,  mi veniva da pensare che il mare finisse con la linea retta dell’orizzonte. La immaginavo come il bordo di un’immensa vasca da bagno, dove il sole, ogni sera, andava a trovare frescura, soprattutto nelle calde giornate d’estate.  Ed era per questo che a noi bambini, quando si riversavamo sulla spiaggia e rapidamente vi c’immergevamo, quell’acqua si presentava tiepida, piacevolmente accogliente.  
Una vasca da bagno, ho detto:  che aveva per pareti le montagne e le marine del golfo. Delimitato, a seconda dell’angolazione, da Capo d’Orso (o punta Licosa) a est e dal Capo di Conca (o punta Campanella) a ovest, e da quella linea, fissa, immobile, che faceva da stacco tra l’azzurro tenue del cielo e quello intenso, profondo della superfice marina.
E’ un ricordo che m’è rimasto impresso indelebilmente nella memoria. Come la frase che le madri, le nonne erano abituate a ripetere come una litania.  Non solo a noi ragazzi, anche ai mariti, ai figli, a chiunque dovesse imbarcarsi su un gozzo, una cianciola, un veliero, un piroscafo. E non importa se si trattava di marinai o pescatori, gente abituata a tutte le esperienze: “Stateve attiente (cioè, siate prudenti). Dicette Pullecenella ca pe’ mare nun ce stanno taverne” (Disse Pulcinella che nel mare non vi sono taverne, cioè rifugi).  
Un’affermazione alla quale, penso,  fa eco Alessandro Baricco quando afferma: “Il mare non ha strade, il mare è senza spiegazioni”.
Il mare, per farla breve, chiede – e merita – rispetto. Come del resto le vie del cielo, quelle terrestri, le strade ferrate. Non si pilota un aereo, né un treno, e neppure un autoveicolo, senza adeguata preparazione. E senza che i vettori siano, per così dire, in ordine, in uno stato di efficienza affidabile.
Abbiamo una parola della quale spesso abusiamo: fatalità. Ci serve per lavarci le mani, pilatescamente,  convinti di mondarci così di negligenze,  insufficienze, omissioni, disattenzioni.
Con la stessa definizione “fatalità” si sarebbe risolta, probabilmente, la dolorosa vicenda del cargo Seagull, affondato nel canale di Sicilia il 17 febbraio del 1974, se la signora Raijna Junakovic, giornalista radiofonica, di origine bulgara, l’unica sopravvissuta di quel viaggio (ma perché sbarcata a Crotone, insieme con un topolino, “adottato” sulla nave), non si fosse battuta tenacemente, con tutte le forze, con una caparbietà straordinaria, alla ricerca della verità, poi finalmente accertata in sede giudiziaria, con la giusta condanna applicata ai responsabili. E –  aggiungo – se non avesse trovato persone, finanche in parlamento (da sottolineare, questo: perché non è cosa da poco, e neppure abituale), disposte ad ascoltarla.
La vicenda del Seagull, istintivamente, richiama quella dello Stabia I, che il 3 gennaio 1979, trascinato dalle onde, andò a sbattere contro la scogliera, a ovest del porto di Salerno, dopo essere rimasto alla fonda col mare in tempesta, senza avere possibilità di entrare nell’area più trasnquilla del porto, col motore in avaria e con una sola àncora, avendo perduta l’altra un mese prima. Una tragedia – non ineluttabile – che costò dodici morti: tra questi, due “nostri” ragazzi: Maurizio D’Urso, appena diciassettenne, maiorese, e Enrico Guadagno, venti anni, di Amalfi, ai quali va il mio e il vostro pensiero, memore, reverente e commosso. Il relitto di quella “carretta del mare”, che tale era, non è stato mai recuperato.
Di tragedie consumatesi a mare sono piene le cronache di ieri e di oggi. Mi basta accennare a quello che è successo qualche settimana fa nel porto di Genova, dove un altro cargo, Jolly nero, ha abbattuto l’alta torre di controllo, causando nove morti;  e, prima ancora, il 13 gennaio dell’anno scorso, all’isola del Giglio, quando la Costa Concordia, splendida nave da crociera, finì contro uno scoglio riportando una falla di  70 metri  su una fiancata che la fece sbandare violentemente, con conseguente arenamento sullo scalino roccioso del basso fondale prospiciente Punta Gabbianara. In questo caso, il bilancio fu di trenta morti e due dispersi.
Le immagini di questi disastri, proiettate dalla televisione nelle case, sono ancora nitide nelle nostre pupille.
Sul sito Repubblica.it ho trovato un lungo elenco di tragedie consumatesi  vicino alle coste italiane tra l’agosto 1968 e il giugno 1986: non è il caso di leggerlo, ma è significativo il numero delle vittime che esse hanno comportato: sono ben 235. Mi domando quanto c’entri la fatalità in tutti questi casi.
Scusatemi la lunga premessa.
Vado al tema del nostro incontro, per lasciare poi la parola al sindaco Antonio Della Pietra e al consigliere delegato per la cultura Mario Piscopo. Sarà quindi la professoressa Liliana Lanzardo, alla quale rivolgo un fervido saluto, a parlarci più dettagliatamente del suo libro, stimolata anche dalle nostre domande.
Mi limito a qualche notazione personale. “Non è il mare il mio nemico” racconta, come un romanzo – in effetti lo è - e con tutto il pathos che questa forma di narrazione richiede, la vicenda del Seagull. Come un romanzo, ho detto. Per il solo fatto che, volendo rispettare la vita privata di Raijna – come riferisce l’autrice stessa –, e quella delle persone che hanno intrecciato la loro storia con la sua, ha ritenuto di “dover modificare sia la composizione del nucleo familiare e parentale, sia le figure di quanti compaiono accanto a lei nel racconto, attribuendo ad essi nomi e caratteristiche individuali di invenzione”. Ma gli avvenimenti che via via si succedono, o che vengono rievocati, quelli sì, sono rispondenti alla realtà. Lo sono, in particolare, i riferimenti storici, che tornano nei lunghi colloqui delle due donne, a bordo della nave: la giovane e bella Nicole, moglie del comandante, e lei, Raijna, la protagonista del libro, moglie sessantenne del marconista. Sono ricordi che per lo più ci riportano al tempo della guerra e spaziano dalla Bulgaria dello zar Boris III alla Jugoslavia di Tito, all’Italia stessa.
Il libro è come una sinfonia: con un adagio che assorbe tutta la prima parte, nella quale il passato di Raijna riemerge in lunghi flashbach; e con un continuo crescendo nella seconda parte, riferita al processo e alla condanna dei responsabili del naufragio, che avvince e coinvolge anche emotivamente il lettore. La mia impressione, ma posso sbagliarmi, è che il mare, quello che secondo i nostri avi “non ha taverna”, in tutto lo svolgersi della vicenda, occupi un ruolo secondario, neppure da comprimario. Volutamente, credo. Anche se la storia comincia proprio con la sensazione di paura che prende Raijna quando, all’uscita del porto di Casablanca, vede il mare aprirsi come una grande distesa d’acqua. Tanto da suscitare l’ironia del comandante.  Paura che si ripresenta durante la navigazione quando c’è da fare i conti col vento di burrasca e con la sofferenza della nave che – glielo dice il marito – è stata costruita, è vero, per traversare gli oceani, ma è malridotta, sovradimensionata, con una stiva rappezzata (addirittura col cemento) e il carico sbilanciato.
Al centro della narrazione c’è, dunque, e innanzitutto, la nave, con i suoi problemi,  le sue carenze strutturali, e ci sono le persone che vi sono imbarcate, coscienti di poterci lasciare la pelle. E anche quelle, irresponsabili, incoscienti - cioè i proprietari del natante - animate solo da sfrenata cupidigia. La nave, arrivata a Crotone, avrebbe dovuto proseguire per Genova per le riparazioni necessarie già predisposte. Invece, c’è subito l’ordine di salpare di nuovo, per un viaggio che sarà fatale, con un altro carico di fosfato. Come poi osserverà Raijna, a naufragio consumatosi, “queste tragedie avvengono perché la natura umana è debole e corruttibile”.  Ma il problema non è solo lo stato di deterioramento dello scafo, dei motori, di tutti gli apparati. Anche quello di un equipaggio che parla lingue diverse ed è inidoneo a svolgere le mansioni a cui è stato preposto. Solo il comandante è in grado di tenere il controllo della navigazione, ma sobbarcandosi a turni massacranti.
La motivazione del titolo del libro viene fuori soltanto all’ultima pagina. Quando Raijna, a una domanda dei cronisti, dopo la sentenza,   risponde che “non è il mare il nostro nemico”. Lo sono, invece,  quanti, venendo meno al proprio dovere, mettono a repentaglio la navigazione e la vita degli equipaggi.
Sono trascorsi quasi quarant’anni dal naufragio della Seagull. Quella nave ha conquistato un significato simbolico; l’azione di Raijna ha prodotto nuove leggi: una in particolare, datata 4 aprile 1977, che riconosce la piena responsabilità penale e civile agli agenti marittimi o raccomandatari che ingaggiano equipaggi italiani e stranieri.
Mi domando, ma non so darmi una risposta,  perché sciagure come quella continuino a verificarsi.

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