sabato 4 maggio 2013

IL MIO RICORDO DI ANTONIO DE LUCA

Stamattina, nella cattedrale di Amalfi, al termine della messa esequiale, mi è toccato  di tracciare un breve ricordo di Antonio De Luca. Un'esperienza che, finora, m'era mancata, ma - si sa - c'è sempre una prima volta.
Lo inserisco qui perché qualcuno dei presenti mi ha chiesto di averne copia.



"La morte - scrive Rainer Maria Rilke - è il 'lato della vita' rivolto altrove da noi, non illuminato da noi". E’ un mistero inestricabile, per quanti sforzi possiamo fare... Inutile chiedersi: "perché?". Non ci sono neppure parole capaci di alleviare l’angoscia causata dalla scomparsa di una persona cara. Ci può essere d’aiuto soltanto questa speranza d’eternità, che sentiamo come una certezza, consegnataci da Gesù Cristo con la sua risurrezione e la sua ascesa al cielo. Penso che, se non fossimo sorretti dalla fede, avremmo davvero motivo di disperarci. E sarebbe da disperati, soprattutto, andarsene da questo mondo senza avere il conforto della fede.

Chiedo scusa per il preambolo, mi serve per sottolineare che "don" Antonio De Lucaqui il don non è retaggio di nobiltà, ma indica la stima, il rispetto che la stessa società, coloro che lo conoscevano e lo frequentavano, gli hanno riconosciuto -  ha avuto due educatori straordinari: la indimenticabile mamma, signora Carmela,  donna di profonda sentita convinta religiosità, e il papà, don Andrea, il mitico “tipografo dell’arcivescovo”, dal quale egli aveva appreso la “sacralità” del lavoro (metto “sacralità” tra virgolette, sperando di poter usare l’espressione qui senza apparire blasfemo).  Lo dico alla luce di un’esperienza diretta, perché anch’io, giovanissimo, in quella tipografia, accanto agli Arsenali,  ho fatto le prime esperienze formative. Avendo come maestri sia don Andrea che Antonio De Luca.

Perciò, se mi si chiede di indicare una qualità caratterizzante di Antonio, rispondo senza indugio che era un instancabile lavoratore. Ricordo i suoi viaggi, pressoché settimanali, in tutto il Meridione per visitare i clienti e raccoglierne le ordinazioni. Le serate che impegnavamo, fino a ora tarda, per allestire i campionari. Lavoratore lo è stato fino all’ultimo giorno.  Un imprenditore che sapeva confrontarsi con i dipendenti proprio su questo piano. Ed era altresì un imprenditore di grandi capacità. Un esperto di comunicazione e di relazioni pubbliche ante litteram. 
Un amico mi ricordava ieri che, quando decise di cambiare settore di attività - da quella di stampatore passò a quella di albergatore -, Antonio ebbe una intuizione geniale: ai clienti che avevano scelto il trattamento di pensione completa dava la possibilità di consumare il pranzo fuori dell’albergo, magari a Capri, a Ischia o in altro luogo, grazie a convenzioni stipulate con operatori del settore. Forse, questa prassi in seguito è stata fatta propria da altri albergatori, ma fino a quel momento non ci aveva pensato nessuno.

Un’altra qualità di "don" Antonio, che voglio sottolineare, è l’amalfitanità,  costantemente sbandierata, come un vessillo. Espressa in tutti i modi, in tutte le situazioni, in tutti i luoghi. Era il suo distintivo. Un’amalfitanità sempre associata – e come potrebbe essere diversamente? – al culto del nostro santo patrono, l’apostolo Andrea.

Era innamorato della storia civile e religiosa di Amalfi – lui, cresciuto sotto l’ala protettrice del venerato arcivescovo Mons. Marini -, si entusiasmava davanti a un quadro che mostrasse scorci del nostro paesaggio. Conosceva nei dettagli le vicende  amalfitane  - intendo fatti e personaggi – del XX secolo. In particolare, le vicende drammatiche della seconda guerra mondiale, combattuta anche qui, di cui portava ancora i segni. Era rimasto, infatti, ferito nel bombardamento di Amalfi del 18 luglio 1943, appena qualche mese prima dello sbarco delle truppe alleate. Se ho un rammarico, da giornalista, è quello di non aver mai pensato di sollecitarlo ad affidarne il racconto a un registratore. Si sarebbe accumulato materiale interessante per gli storici

I momenti di pausa, di relax, Antonio De Luca li occupava compiendo lunghe camminate sulle strade della costiera. Qualche volta m’è capitato di incrociarlo. Lui a piedi e la macchina con l’autista che lo seguiva a passo d’uomo. In un atteggiamento un po’ svagato, preso da chissà quali pensieri, ma a passo svelto e con le mani giunte, appoggiate alla schiena. “I suoi pensieri hanno riempito la vita di tutti noi” ho letto in un necrologio. Ed è vero. Hanno fatto bene a evidenziarlo. Ora, hanno scritto, la sua marcia s’è fermata. Lontano lontano…

Immagino  che con quello stesso atteggiamento si sia presentato al cospetto del Signore. Che, infinitamente buono e misericordioso, gli ha già assegnato un posto in Paradiso.

La morte, è vero, rappresenta un brusco distacco dagli affetti terrestri: dai familiari, dalle persone amiche. Tuttavia,  ce lo insegna San Giovanni Crisostomo, non possiamo andare a godere Dio se non attraverso la morte. Perché è la morte che ci unisce a Dio in eterno.

Sant’Agostino, nelle Confessioni,  riferisce che la sua mamma Monica, prima di morire, gli aveva raccomandato: “Seppellite pure questo mio corpo dove volete, senza darvi pena. Di una sola cosa vi prego: ricordatevi di me, dovunque siate, dinanzi all’altare del Signore”. Ed è questo il modo migliore – anzi, l’unico modo - di ricordare il carissimo  Antonio, di tenerne viva la memoria.  
Riposi in pace.

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